Campo d’azione contenutistico – la managerialità
L’approccio manageriale è teso a diagnosticare, progettare, gestire, manutenere gli impianti organizzativi negli aspetti di:
La logica circolare che Fucina Sanità intende sposare è quella di vedere gli interventi organizzativi nel rispetto delle fasi logiche e cronologiche d’intervento quali:
Tale circolarità d’approccio permette il radicamento stabile e sostanziale dei cambiamenti organizzativi.
Logica di relazione con la committenza
La strategia d’intervento di Fucina Sanità non è ispirata alla supplenza gestionale, a compensare dall’esterno funzioni mancanti ai sistemi aziendali (esternalizzazione), bensì al supporto allo sviluppo gestionale autonomo, a sviluppare strutture, sistemi e divulgare competenze interne all’organizzazione sanitaria (internalizzazione).
Stato di consapevolezza istituzionale
Quando i fenomeni che ci circondano raggiungono la nostra consapevolezza siamo in grado di gestirli se dei medesimi fenomeni non siamo consapevoli, sono loro a gestire noi.
Legata alla riforma del 1992 che ha promosso una logica di aziendalizzazione del sistema sanitario, è nata la richiesta alle strutture di comportarsi alla stregua di imprese complesse, che mirano a massimizzare l’autonomia economica (principio d’efficienza) ed all’appropriatezza delle prestazioni (principio d’efficacia).
Quella riforma ha, più o meno inconsapevolmente, indotto un’implicita richiesta di attrezzare i ruoli apicali più significativi del sistema (direttori di dipartimento, di distretto, direttori amministrativi e sanitari, direttori generali) di competenze e comportamenti manageriali.
A fronte dell’implicita richiesta di prestazioni gestionali da parte dei ruoli di governo organizzativo, a fronte della generica formazione giuridica non è stata attuata nessuna formazione manageriale e neppure si è cercato di selezionare soggetti provenienti dal mercato dei gestionali.
Tale richiesta di managerializzazione del sistema è rimasta inevasa anche per il fatto che le istituzioni pubbliche tendono a ritenersi, per inerzia culturale, un fenomeno “altro” rispetto alle organizzazioni private. Come tali non sottoposte come qualsiasi organizzazione a bisogni di razionalizzazione economica e di distribuzione ed integrazione ragionate delle diverse parti aziendali. Tale dubbia stima di alterità, dipende dal fatto che le istituzioni gravitano nel mercato del monopolio istituzionale e come tali sono mantenute finanziariamente dai cittadini contributori e, nonostante il loro eventuale mal funzionamento non sono penalizzate dal fallimento ma, al massimo, da tentativi di commissariamento.
Questa differenza ha generato in molti abitanti delle istituzioni la convinzione (un po’ snob) di non sentirsi aziende (nonostante le norme lo prevedano) e, come tali, di non aver bisogno di razionalizzare managerialmente i loro impianti organizzativi, di non necessitare di competenze e di capacità, utili ad intercettare e minimizzare le diseconomie organizzative, di non dover maturare competenze di progettazione di impianti organizzativi coerenti con i fabbisogni sociali.
Sta di fatto che nelle istituzioni in genere, e nello specifico in quella della sanità pubblica italiana non alberga, non essendo praticata, sia per cultura che per competenze, il concetto di managerialità.
I sistemi organizzativi della sanità pubblica sono ricchi di competenze sociosanitarie nei livelli operativi e specialistici ma poveri di competenze manageriali di governo del sistema organizzativo, metaforicamente si presentano come un condominio di professioni specialistiche in assenza di amministratori del condominio nel suo insieme. Ne risulta che gli aspetti gestionali sono invasi da adempimenti spesso acritici (burocrazia), mentre il vuoto gestionale è compensato dal transitorio buon senso/arbitrio soggettivo di chi ricopre i diversi livelli apicali di governo.
Una sorta di Babele comportamentale temporanea, recitata dai soggetti che ricoprono ruoli gestionali e che non sanno edificare storia consolidata di buone pratiche gestionali.
Queste transumanze che si cancellano alle spalle le loro storie di amministrazione raramente gestionale, non lasciano segno ma vuoto manageriale impagliato da adempimenti burocratici.
Sull’onda della riforma del 1992 furono introdotte strutturalmente in alcune regioni (intorno al 1995) le agenzie regionali della sanità. Nella logica della riforma le agenzie dovevano porsi tra la sede politica regionale e le Asl con la funzione di rappresentare l’integrazione gestionale della sanità territoriale. Le agenzie avrebbero avuto il compito di coordinare il funzionamento della sanità, omogenizzando criteri di struttura, criteri di gestione finanziarie, di dimensionamento, di indicatori di risultato, in grado di definire con l’AGENAS (agenzia nazionale), formule organizzative da consolidare.
In realtà nel giro di pochi anni le agenzie regionali, percepite dal sistema come un puro livello di potere ingombrante furono uccise in culla, o snaturate a livello di staff assessorile o, peggio ancora, convertite in contropotere politico all’Assessore. Un’occasione persa di innesto di cultura gestionale!!
Il presente scritto ha l’intento di proporre un modello di orientamento metodologico, utile alla lettura dell’organizzazione in termini sistemici e manageriali.
L’approccio sistemico si differenzia dall’approccio analitico, come la visione globale si differenzia dalla visione di dettaglio.
I due modelli logici di lettura della realtà (analitico e sistemico) sono complementari come la parte sta al tutto ed il tutto sta alle sue parti.
L’approccio analitico rappresenta la prospettiva di primo piano di chi si trova a svolgere una prestazione diretta, ed è coinvolto in attività professionali specialistiche.
Le prestazioni specialistiche dirette presuppongono l’applicazione di metodi e tecniche di dettaglio preferibilmente mono-disciplinari e monofunzionali (progettuali, produttive, amministrative, commerciali, eccetera).
L’approccio sistemico è proprio di ruoli gestionali e manageriali, ai quali è richiesta una prestazione gestionale indiretta, tesa alla progettazione ed al governo di interi sistemi o di subsistemi organizzativi. A tali ruoli è sollecitata l’assunzione di una prospettiva panoramica di lettura della configurazione complessiva degli impianti organizzativi.
I ruoli gestionali richiedono, a chi li esercita, la capacità di prendere decisioni discrezionali sulle condizioni organizzative, sulle risorse e sui sistemi di lavoro, proprie delle persone che svolgono attività diretta.
Tale approccio non si muove a livello di dettaglio metodologico e tecnico, bensì nell’area delle logiche generali, di orientamento dinamico, di stima ed approssimazione previsiva di interi sistemi aziendali.
Il livello più alto di approccio sistemico è richiesto agli individui che ricoprono ruoli di governo di interi sistemi organizzativi (amministratori delegati, direttori generali e di divisione, imprenditori, responsabili politici).
A tali ruoli è richiesta una lettura logica rivolta a tutti gli aspetti riguardanti un contesto organizzativo, nel suo insieme, ed una consapevolezza dell’orchestrazione dinamica di interi processi aziendali.
Il modello metodologico che segue si pone come mappa mentale in grado attribuire visibilità logica a tutti gli elementi significativi componenti interi impianti organizzativi (aspetto anatomico) ed alle interazioni che li caratterizzano (aspetto dinamico e funzionale).
Un tale modello si propone come contenitore ragionato nel quale si possono inscrivere tutte le tematiche gestionali e manageriali delle organizzazioni.
Le classi di analisi
Per descrivere il modello di approccio userò la tassonomia proposta dagli studiosi di sistemi organizzativi Lowrence e Lorsch*.
l’organizzazione è un sistema di variabili aperto al contesto esterno; tale contesto è caratterizzato, in output, dall’organizzazione mediante la produzione di beni o servizi in uscita. Dal medesimo contesto essa riceve in input influenze ad opera dei fattori in ingresso (risorse economiche, materie prime, conoscenze, tecnologia, fattori socioculturali, competenze, attitudini, domande, bisogni ecc). Non è quindi pensabile una progettazione organizzativa che non tenga in considerevole rilievo sia la propria missione (rappresentata dalla qualità e la quantità dei prodotti e servizi in uscita dal sistema organizzativo), sia la coerenza con essa della qualità e la quantità dei fattori in ingresso nel sistema organizzativo, (figura n.1);
il processo di elaborazione e/o trasformazione dei fattori in ingresso che avviene nel sistema organizzativo finalizzato ai prodotti e/o servizi in uscita è sostenuto da un costrutto organizzato che è analizzabile mediante tre categorie base di riferimento:
* P. R. Lawrence, J. W. Lorsch (1967), Organization and environment, MA: Harvard University Press, Cambridge.
La struttura di base ratifica la configurazione differenziata delle funzioni, delle divisioni, dei dipartimenti, dei reparti dei diversi uffici e la loro dotazione delle risorse.
La struttura di base garantisce stabilità al sistema organizzativo. Troppa struttura potrebbe irrigidire il sistema, poca struttura induce precarietà (destrutturazione) aziendale.
I sistemi operativi garantiscono volumi, trasparenza, velocità e ripetitività a standard dei processi di lavoro. possono rappresentare un ostacolo quando le attività lavorative prevedono discrezionalità decisionali e si trovano a fronteggiare situazioni impreviste.
In altri termini i sistemi operativi possono ingessare burocraticamente le condotte che richiedono flessibilità.
I processi sociali garantiscono la flessibilità del sistema organizzativo. Essi costituiscono un complemento, in opposizione dialettica, alla struttura di base (che garantisce stabilità/rigidità) ed ai meccanismi operativi (che presidiano la standardizzazione del sistema aziendale).
I processi sociali possono a loro volta essere codificati in diverse categorie e stratificazioni organizzative. Si può ad esempio parlare di processi di rifiuto, di accettazione e di compensazione organizzativa; come si possono suddividere genericamente i processi di vertice organizzativo dai processi della fascia intermedia e da quelli della fascia bassa organizzativa. Si parla ancora di processi, quando si parla di stili di gestione manageriale e di comando, di climi e di culture organizzative. Nell’ambito dei processi sociali possono convivere comportamenti virtuosi e comportamenti viziosi, discrezionalità professionale accanto ad arbitri diseconomici e distruttivi.
Ecco la mappa sistemica di ricognizione e di riprogettazione organizzativa che consente di diagnosticare i punti critici, ed aiuta a diagnosticare i nessi causa/effetto dei fenomeni.
(figura n. 1).
I beni/servizi in uscita, i fattori in ingresso, gli elementi della struttura di base, dei sistemi operativi e dei processi sociali, sono fra loro legati da un rapporto di interdipendenza. Nessun fattore può essere assunto in assoluto come variabile dipendente o indipendente;
Gli elementi della struttura di base, dei sistemi operativi e dei processi sociali, per esempio, si influenzano vicendevolmente, va quindi riservata più attenzione ai legami tra queste tre dimensioni piuttosto che ad ogni dimensione presa separatamente.
Ecco alcuni esempi:
l’interdipendenza dei fattori organizzativi deve essere letta nella sua congruenza o coerenza con le finalità dell’organizzazione. La progettazione organizzativa non va, perciò, messa in relazione con un modello organizzativo teorico ed astratto (teoria classica) ma con le finalità concrete dell’organizzazione. Non esiste un modello organizzativo valido in assoluto;
il contesto sul quale si apre il sistema organizzativo è normalmente in continua evoluzione e specifico per ogni mercato di beni e servizi. Questo implica una capacità organizzativa tesa al costante adattamento dei fattori in gioco.
Il modello di analisi sistemica si sta dimostrando un approccio di ricerca organizzativa generalizzabile a diversi sistemi e sottosistemi organizzativi. La sua applicazione in termini di ricerca e riprogettazione, richiede un’adeguata preparazione manageriale ed un approccio multidisciplinare, condizioni queste difficilmente presenti nelle culture organizzative arretrate.
Nell’applicazione dell’analisi sistemica è possibile vedere riaffiorare, se pur sotto spoglie diverse, elementi del passato conflitto tra visione classica dell’organizzazione e visione sociale. La lettura sistemica è quindi affrontata da alcuni in termini ingegneristici, in analogia con i sistemi cibernetici, da altri in termini psico-socio-organizzativi, in analogia con i sistemi bio-sociali.
I primi rimangono rigidamente legati ad una progettazione che mantiene stretta coerenza tra l’interdipendenza dei fattori di una organizzazione ed i suoi fini (di qualsiasi fine si tratti), i secondi, più implicitamente che esplicitamente, introducono tra le finalità delle organizzazioni quelle di sviluppo sociale ed individuale dei suoi abitanti, facendosi così portatori di una visione umanistica delle organizzazioni o più semplicemente umana. Questi ultimi legano la qualità dei beni/servizi in uscita alla qualità di convivenza degli abitanti del sistema che li produce.
Bisogna inoltre tenere presente che, come suggerisce l’analisi sistemica, uno dei fattori rilevanti di ingresso nei sistemi organizzativi è rappresentato dalla cultura (valori, atteggiamenti, comportamenti) del contesto.
La cultura del contesto è in grado di modificare notevolmente le ipotesi di progettazione organizzativa (si pensi all’insediamento di un’impresa industriale in un contesto a cultura industriale, oppure in un contesto di prevalenza antropologica preindustriale).
Per questa ragione i modelli di analisi sistemica, che hanno preminentemente una provenienza culturale anglosassone, necessitano di adattamenti a diverse culture.
I modelli di analisi dei processi sociali nelle organizzazioni necessitano perciò di un approfondimento personalizzato rispetto alle peculiarità antropologiche di ogni contesto specifico.
All’interno delle scuole di formazione manageriale (MBA Bocconi) e dei corsi di formazione al comportamento organizzativo, il modello di approccio sistemico all’organizzazione è stato usato come modello logico contenitore di riferimento, nel quale fare rientrare tutti i contenuti manageriali funzionali (contabilità, controllo di gestione e finanza, gestione del personale, sviluppo organizzativo, produzione, vendite e marketing, logistica, sistemi informativi, strategia).
Un tale uso permette di affrontare, in modo analitico, gli approcci monofunzionali e specialistici, ricollocandoli nel loro rapporto a puzzle accanto a tutti gli altri aspetti organizzativi, fino ad allargare lo sguardo verso le interdipendenze plurifunzionali e verso la visione della configurazione organizzativa nel suo insieme. All’interno dello scenario contemplato dall’approccio sistemico è possibile vedere la relazione dialettica che lega le funzioni di sviluppo (marketing, ricerca) e le funzioni di controllo (amministrazione, controllo di gestione). Così come è possibile osservare il gioco che si snoda tra le funzioni a tempi brevi (produzione, vendita, amministrazione, gestione del personale, logistica), e le funzioni strategiche (marketing strategico, finanza, sviluppo organizzativo, politica del personale).
L’ uso delle classi di analisi nel processo di diagnosi organizzativa
Le classi di analisi sistemica possono essere messe in dinamica di relazione in occasione di processi di diagnosi organizzativa. L’obiettivo della diagnosi organizzativa è quello di leggere le coerenze-incoerenze organizzative rispetto agli obiettivi aziendali.
L’insieme dei beni/servizi che l’organizzazione, di fatto, produce ed eroga (in modo consolidato), o intende produrre o erogare realisticamente a tempi medi (in prospettiva), rappresentano il concreto riferimento strategico, la variabile più indipendente delle altre, sulla quale misurare le coerenze/incoerenze organizzative.
Non esiste un modello di organizzazione ideale, una formula organizzativa aprioristicamente vincente. Il modello vincente per ogni specifica organizzazione è relativo e va costruito sulla specificità storica, attuale, prospettica e sulle originalità di ogni singola organizzazione.
In tali occasioni è suggeribile un percorso logico che percorre le seguenti tappe, legate da linearità temporale:
Alternative di progetto di intervento e cambiamento organizzativo (cambiare l’organizzazione o organizzare il cambiamento?)
I modelli di intervento organizzativo generalizzabili sono pochi poiché, le specifiche pressioni ambientali e situazionali che inducono il cambiamento e le peculiarità di ogni singola organizzazione, vietano la formulazione di modelli dettagliati di azione.
Si possono enunciare due logiche di base che solitamente ispirano i processi di cambiamento organizzativo e che si possono così enunciare:
Cambiamento per discontinuità
La logica di cambiamento per discontinuità viene adottata quando, per obsolescenza organizzativa, per necessità di mercato o per scelta imprenditoriale o direzionale, si intende sottoporre l’organizzazione ad una sterzata evidente (in questi casi si usa il termine ristrutturazione) o, ancor più, si intende operare una revisione di base ( in tali frangenti si parla di rifondazione).
Tale logica risulta inevitabile:
Questo modello d’intervento parte da una ridefinizione, anche radicale, degli output aziendali (beni/servizi in uscita) con una consequenziale ridefinizione della struttura di base (organigramma, funzionigramma, allocazione delle risorse). Coerentemente con la ridefinizione della strategia industriale e della struttura vengono riformulati (per buona parte ex novo) i sistemi operativi.
Ne consegue una vistosa destabilizzazione dei processi sociali, frutto di riallocazione e ricomposizione quali/quantitativa di organico, di messa in mobilità di molti attori organizzativi appartenenti a diversi livelli gerarchici, di innesto di personale nuovo per anzianità aziendale, per competenze e culture di provenienza.
Durante tali processi di ristrutturazione, l’attenzione rivolta al controllo dei costi, al taglio, spesso indiscriminato, di quelli che sono ritenuti i “rami secchi” aziendali (amputando spesso con essi anche i germogli in crescita), porta l’implicita missione aziendale ad essere centrata sulle funzioni di controllo fiscale (controllo gerarchico di gestione) e, contemporaneamente, a dimenticarsi delle funzioni di sviluppo (progettazione, sviluppo nuovi prodotti e mercati).
Questa logica di cambiamento organizzativo paga un prezzo (a volte inevitabile) di disagi sociali, di processi di difensività diffusa, palese o implicita, di dinamiche conflittuali rivendicative (sia sindacali che prodotte da legami relazionali precedenti), si instaura un clima persecutorio e di paura di perdita di garanzie lavorative con correlate dinamiche di concorrenza accanita e processi di mobbing.
La criticità dei processi sociali produce demotivazioni, fughe di “cervelli” flessione qualitativa delle prestazioni dell’intero sistema.
Per tali ragioni i processi di cambiamento per discontinuità devono essere gestiti con tempistiche veloci.
Permanere per troppo tempo in una condizione di allarme sociale da ristrutturazione, può rinforzare processi stabili di depressione sociale di sistema, una sorta di sindrome di stato agonizzante, difficilmente recuperabili.
Le ristrutturazioni per discontinuità che hanno una eccessiva durata potrebbero portare a definitiva morte un sistema organizzativo per una sorta di “accanimento terapeutico”.
Per tali ragioni, dopo un rapido intervento di ristrutturazione per discontinuità, è indispensabile lanciare concreti messaggi di rilancio del sistema organizzativo.
La strategia dei due tempi, prima ristrutturazione e poi rilancio, non è obbligata ma è spesso legata alle caratteristiche del management che guida tali processi.
Sono pochi i manager che, per caratteristiche di personalità, riescono a gestire in contemporanea le azioni di controllo e rilancio di sistema, a governare l’ossimoro di convivenza dialettica degli opposti.
Per tali ragioni capita spesso che le figure che sanno reggere l’impopolarità legata ai processi di ristrutturazione per discontinuità, risultano poco attitudinali nel gestire il rilancio e, viceversa, i manager di sviluppo si dimostrano poco inclini a guidare impopolari cambiamenti per discontinuità.
Cambiamento incrementale
La logica di cambiamento incrementale viene applicata quando le condizioni di disallineamento e di incoerenza organizzativa rispetto agli obiettivi non risultano gravi, quando l’organizzazione risulta “febbricitante” ma non “moribonda”.
In questi casi, più che un brusco deragliamento salvifico, serve un riorientamento organizzativo.
Le azioni di cambiamento si possono distendere su tempi medi, e più che agire in primo piano sull’eliminazione delle diseconomie e dei vincoli organizzativi, si può agire prevalentemente sullo sviluppo ed il rinforzo delle opportunità.
Questo modello d’intervento prende spunto da alcuni prodotti/servizi delle specifiche organizzazioni in cambiamento che potrebbero essere notevolmente migliorati.
Sulle aree di miglioramento degli output aziendali individuate, vengono lanciati dei progetti di sviluppo che permettono la composizione di team di progetto, composti da attori organizzativi appartenenti alle diverse funzioni aziendali e scelti per competenze ed affidabilità motivazionali.
Il cambiamento prende l’avvio in ambito ristretto con interventi esemplari che coinvolgono apparentemente solo le task force coinvolte.
L’avvio di un intervento mediante processi sociali circoscritti, tranquillizza il resto del sistema aziendale e non sollecita resistenze diffuse, in grado di vanificare i progetti di cambiamento.
Durante l’attuazione dei progetti di cambiamento è inevitabile che i team di lavoro entrino, in modo morbido e funzionale, in rapporto con la restante parte dell’organizzazione. Questo fatto solleciterà curiosità e sentimenti di emulazione, nella misura in cui i gruppi di progetto approdano a risultati positivi e dimostrano di essere supportati da una committenza forte, operata dalla direzione aziendale.
Questa morbida irradiazione culturale produttrice di attenzioni positive, originata dalle attività esemplari, farà percepire i cambiamenti in atto sotto una veste di opportunità e non di vincolo.
Una tale interpretazione positiva dei cambiamenti potrà produrre la caduta di alcune resistenze e favorirà la nascita di aspettative emulative, accanto alla la voglia di coinvolgimento diffusa.
Contemporaneamente i gruppi coinvolti direttamente nei progetti di cambiamento, percependosi protagonisti apprezzati, aumenteranno il loro grado di motivazione e con essa di risultati.
A conclusione della fase sperimentale dei progetti di innovazione, nella logica del cambiamento incrementale, le pratiche e le condotte risultate vincenti possono essere, per buona parte, ratificate e normate in termini di sistemi operativi.
In tale modo le best practices personali e processuali sarebbero per buona parte stabilizzate in veste di sistemi operativi, in veste di best practices organizzative.
Quando il consolidamento delle prassi e dei risultati dei gruppi di progetto risultano stabilmente vincenti, le aree di cambiamento possono essere ulteriormente consolidate in termini di struttura di base, attribuendo posizioni stabili in organigramma, funzionigramma fornendo loro una dotazione stabile di risorse (budget, organico, tempo, spazio fisico, tecnologia).
Come si vede questa logica di cambiamento incrementale parte dal coinvolgimento delle persone, consolida i processi in un secondo momento, in termini di sistemi operativi e, solo in ultima fase, rinforza il cambiamento avvenuto in termini di struttura di base.
Tale logica incrementale si muove in un percorso diametralmente opposto a quello che caratterizza la logica di cambiamento per discontinuità, che parte dalla struttura, edifica i sistemi operativi e richiede agli individui un forzato adattamento processuale.
I cambiamenti incrementali organizzano il cambiamento facendo leva sulla partecipazione e condivisione massima delle comunità aziendali. I cambiamenti per discontinuità cambiano l’organizzazione intesa come macchina tecnocratica e puntano sull’adattamento coatto degli individui.
I cambiamenti incrementali, facendo leva sul coinvolgimento e l’adattamento di percorso agli imprevisti originati dai processi sociali, richiedono, alle direzioni aziendali, notevole sensibilità di ascolto sociale, capacità di mediazione, pazienza e fermezza di obiettivi.
Questa strategia di intervento garantisce più continuità alla vita organizzativa, più stabilità sociale, più tutela delle caratteristiche di originalità organizzativa.
La caratteristica di unicità ed originalità delle formule imprenditoriali ed aziendali, in genere, risiede nella capacità di innovare nella continuità. Si regge sull’abilità direzionale nell’attualizzare i cambiamenti, senza cancellare le memorie storiche delle organizzazioni, che le caratterizzano come uniche ed originali.
Il punto debole dei cambiamenti incrementali risiede nei tempi medi che li caratterizzano, e che li rende applicabili solo in organizzazioni non in affanno di cambiamento.
La fretta, i cambiamenti rapidi di mercato, la tipologia di manager impazienti e d’assalto, gli azionisti che spesso richiedono risultati positivi con la tempistica ossessiva dei bilanci trimestrali, costituiscono fattori conniventi con l’adozione di una logica di cambiamento per discontinuità, anche quando sarebbe possibile adottare con più appropriatezza un cambiamento incrementale.
La frenesia dei mercati globali, il tramonto dei progetti industriali strategici e di lungo periodo, a favore dei blitz finanziari e della speculazione industriale di breve periodo, hanno introdotto una convenzione concettuale di urgenza temporale, che vieta, di fatto, il respiro strategico al mondo industriale.
Appare difficile fare piani a lungo termine in una partita industriale dove sembra prevalere l’idea di vincere a qualsiasi costo a breve piuttosto che campare bene e lungamente.
Sotto tali pressioni si confonde il grosso con il grande, la quantità con la qualità, le stock option con il successo professionale.
In questo brodo industriale vengono bruciate risorse preziose solo perché non ci si è dati il tempo di scoprirle, vengono stravolti o distrutti interi sistemi organizzativi, sviluppabili in modo vincente, ma coinvolti in ristrutturazioni selvagge che pretendono prestazioni immediate contro il principio di realtà.
Questa cultura della fretta, che premia l’agire repentino e sottovaluta l’abilità di capire, produce figure manageriali che, in tre anni di mandato, promettono di ristrutturare intere multinazionali, conseguendo contemporaneamente risultati economici. Manager pronti a vendersi dopo tre anni, a prezzo maggiorato, ad altri azionisti offerenti un’organizzazione da spremere collassandola.
Le grandi imprese hanno bisogno di atti corali e tempi umani per essere edificate, non certo della tempestività individuale stimolo-risposta richiesta da molti giochi proposti dalle play station.
Sono relativamente poche le figure manageriali capaci di condurre in porto un progetto industriale, consapevoli che, per modificare l’andamento di un’azienda complessa, necessita un mandato di una decina d’anni. Tempo occorrente per poter ottenere risposte efficienti sul piano quantitativo della produttività e della redditività d’impresa, ma soprattutto per poter investire in efficacia organizzativa, in stabilità, qualità di risposte, e per ottenere l’adesione culturale della comunità d’impresa.
I sistemi aziendali complessi hanno bisogno della cura, della costanza e della passione che occorrono per ottenere in vent’anni un’ampolla di aceto balsamico. Per ottenere aceto comune basta lasciare stappata per qualche mese una bottiglia di vino mediocre.
Carenze primarie di configurazione organizzativa
La sanità pubblica italiana, in termini di macrostruttura, testimonia una colossale anomalia che la pervade dal livello nazionale alle periferie. Difetta paradossalmente per l’assenza di due funzioni, delle conseguenti metodologie di funzionamento e delle coerenti competenze:
Nell’accezione più diffusa nei sistemi sanitari pubblici la funzione che viene denominata “gestione del personale” altro non è che gestione amministrativa del personale e, in quanto tale, connota l’approccio quantitativo contabile (per esempio: paghe e contributi, controllo presenze, ecc.).
Il sistema della Sanità pubblica è costituito da una galassia di organizzazioni caratterizzate dal fatto di produrre la massima parte del valore aggiunto aziendale attraverso il contributo delle persone.
Nelle organizzazioni più legate al contributo delle risorse umane piuttosto che alle risorse tecnologiche, le persone rappresentano il fattore produttivo strategico che, come tale, andrebbe presidiato e sviluppato da una strategica e forte Direzione del Personale. La mancanza di questa funzione costituisce una grave ignoranza di configurazione organizzativa perpetuata storicamente dall’istituzione della Sanità Pubblica.
Il perimetro concettuale di una Direzione del Personale, qualitativa e non amministrativa, definisce tutte le azioni che considerano strategico lo sviluppo degli attori organizzativi che, come tali, vanno affiancati durante la loro avventura aziendale con tutte le attività di ascolto e di sviluppo personalizzato. Tali azioni, soprattutto nelle organizzazioni ad alto valore aggiunto di competenze ed attitudini permette di qualificare professionalmente e motivare gli individui e conseguentemente ottenere l’appropriatezza delle prestazioni.
La Direzione del Personale andrebbe collocata come staff strategico delle direzioni generali.
Per scendere più nel dettaglio la funzione del personale dovrebbe possedere un adeguato organico totalmente dedicato alle seguenti sottofunzioni e competenze operative:
Tutte queste azioni e professionalità sono scandalosamente assenti nell’impianto della sanità pubblica.
L’assenza di tali funzioni abbandona a processi: occulti, casuali, arbitrari, tribali, la selezione e gli sviluppi di carriera. Cancella la meritocrazia e, nella non trasparenza della convivenza organizzativa, lascia spazio anche ad infiltrazioni patologiche, ma soprattutto non accumula intelligenza storica in termini di logiche di razionalizzazione dei processi sociali ed individuali di un’organizzazione, come quella sanitaria, composta prevalentemente da persone e vitalizzata dalle loro prestazioni professionali.
Tutto ciò procura enormi ed occulte disfunzioni economico- finanziarie e sociali al sistema intero.
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La presenza organizzativa di una funzione di Sviluppo Organizzativo avrebbe il compito di monitorare la coerenza tra strutture organizzative, regole di funzionamento e bisogni sanitari della popolazione e mantenerne il riallineamento.
Governare gli elementi che compongono la struttura, che costituiscono i fattori di stabilità, dell’hardware organizzativo significa:
Governare le regole di funzionamento (in termini tecnici si tratta di sistemi operativi), significa standardizzare, diffondere e consolidare le prassi validate come vincenti ed eliminare quelle obsolete o che hanno perso la loro ragione operativa.
I sistemi operativi regolano le dinamiche di movimento normato del sistema organizzativo.
La struttura rappresenta l’hardware della macchina organizzativa e dovrebbe essere formalizzata nell’atto aziendale; i sistemi operativi ne definiscono le regole di movimento i software proceduralizzati quali:
Per quanto riguarda la funzione Sviluppo Organizzativo in sanità, sembra proprio che in termini di consapevolezza del fenomeno, dal legislatore all’ultimo direttore di presidio o di distretto, prevalga la latitanza percettiva.
In coerenza concreta con l’ipotesi di aziendalizzazione proposta dai Decreti legislativi 502/1992 e 229/1999, sarebbe stato indispensabile rinforzare il sistema sanitario con strutture, ufficializzazione di compiti di ruolo, con regole di funzionamento e attraverso l’acquisizione di competenze manageriali.
Anche la decisione utile di richiedere un’ufficializzazione dello stato dell’arte organizzativo con il documento Atto Aziendale, se ha svelato un flebile intento del legislatore di mettere in risalto l’aspetto manageriale, tale intento non è stato messo a terra in termini operativi.
L’ atto Aziendale durante il processo di diffusione nel sistema ha perso la sua debole impronta manageriale, si è liquefatto come neve al sole ed è diventato un puro esercizio formale, con pochi o nulli riscontri in termini di cambiamento organizzativo.
Senza un format nazionale o almeno regionale di compilazione che permettesse, pur rispettando le specificità periferiche, di comparare formule organizzative, alla ricerca delle formule vincenti, l’Atto Aziendale si snatura come futile adempimento. Senza una chiara tempificazione di compilazione certificante (ogni due, tre anni?) che permettesse di imparare generativamente dalla storia, l’Atto Aziendale è diventato un compitino formale abbandonato ai tempi e discrezionalità di una regionalizzazione burocratica e anarchica.
Se il legislatore avesse voluto ottenere un risparmio in termini di finanze sanitarie, avrebbe dovuto massimizzare le leve manageriali per minimizzare le enormi diseconomie di sistema. L’attuale ”aziendalizzazione” dell’impianto della Sanità Pubblica non sembra mirare alla razionalizzazione, garantendo appropriatezza di prestazioni ed economicità del sistema. Sembra mirare al “risparmio facile”, magari attraverso la brutalità di tagli lineari che depredano e penalizzano le virtù presenti e non snidano le patologie del sistema. Un atteggiamento poco saggio di risparmio fatuo, che si tramuta in enormi bisogni finanziari sotto lo “stress test” del primo Covid di passaggio.
Se allarghiamo lo sguardo ad alcuni gruppi di aziende sanitarie private autorevoli (Humanitas), magari criticabili per l’alta propensione al business e per la bassa tensione al welfare, ma competitivi in termini di prestazioni sanitarie, scopriamo che in queste aziende l’aspetto manageriale di continuo aggiornamento della configurazione organizzativa è ritenuto fondamentale per salvaguardare le prestazioni eccellenti di tutto il sistema.
In queste organizzazioni la funzione di gestione e sviluppo del personale e quella di sviluppo organizzativo sono attentamente presidiate e ritenute strategicamente più importanti della funzione amministrativa.
Tali funzioni permettono a questi sistemi organizzativi di mantenere in continuo e incrementale sviluppo l’impianto aziendale e le prestazioni dei suoi abitanti, nel rispetto alle esigenze di mercato sanitario e dei bisogni emergenti, permettono in tal modo, di apprendere dalla storia.
Direzione per adempimenti burocratici o per obiettivi
Nella pratica culturale diffusa dell’istituzione sanitaria pubblica, accade frequentemente che al posto della consapevolezza dello scopo del proprio lavoro, venga richiesto di muoversi in ottemperanza alle procedure, agli adempimenti.
In ambienti non clinici della sanità chiamati genericamente e poco appropriatamente amministrativi, a fronte della domanda: “perché mettete in atto questa azione organizzativa, qual è lo scopo?”, ci si sente spesso rispondere: “lo richiede l’adempimento!” Quasi che nella liturgia burocratica l’adempimento rappresentasse un simulacro di dogmi che non richiedono spiegazioni.
In altri termini di rimando alla richiesta di esplicitazione gli obiettivi, del senso delle azioni organizzative, la non risposta burocratica evoca l’obbedienza ad una prescrizione, l’adempimento, quasi ci fosse una sollecitazione forte del sistema organizzativo alla deresponsabilizzazione acritica di molti suoi abitanti, indotti a recitare il ruolo gregario di servo-adempimento, anziché il copione più flessibile e responsabilizzante di chi si attiva per raggiungere obiettivi funzionali. Ci si muove più per rispetto acritico e deresponsabibilizzante nei confronti delle norme che per dare senso e responsabilità al proprio lavoro.
Come conseguenza della pandemia Covid è stato introdotto in molti settori amministrativi lo smart working.
Tale innovazione della logistica lavorativa ha “spintaneamente” convinto diversi soggetti istituzionali che, anche in assenza di condizioni d’emergenza, lo smart working può efficacemente essere adottato anche in periodi normali.
Il tentativo di affrontare e governare il lavoro a distanza ha svelato, dal basso del lavoro operativo, come la pedina rivelatrice dell’intero domino, i legami di processo e le tematiche gestionali di direzione per obiettivi quali:
Tali fenomeni spingono a sostituire il funzionamento per adempimenti e compiti frantumati con il funzionamento per obiettivi. Sollecitano i dirigenti di ogni livello a saper progettare, programmare, distribuire, e delegare attività che abbiano un senso compiuto, che responsabilizzino i collaboratori e che siano verificabili in termini di risultati.
Negli ambienti lavorativi richiesti di raccogliere e trattare dati e procedure digitalizzate l’attività è gestibile per significative porzioni di tempo lavorativo permettendo al personale la gestione flessibile del tempo e dello spazio di lavoro (lo smart working). In cambio di questa flessibilità sono richieste prestazioni lavorative declinate su obiettivi e risultati verificabili, che richiedono responsabilizzazione di gestione di processi di lavoro al posto di una acritica esecuzione di compiti ed operazioni prescritte estemporaneamente dalle figure di comando.
Il passaggio dalla prescrizione frantumata di compiti non programmati per tempo e prescritti ai “sottoposti”, alla programmazione dell’attività per obiettivi affidata ai “collaboratori” richiede un cambiamento epocale di stili di direzione. La responsabilità della programmazione del lavoro altrui richiede ai capi un ‘azione generativa di riempimento di significato del lavoro dei collaboratori anche in situazione remota, abbandonando il compito di certificazione banale e comoda della timbratura del cartellino che tende a confondere l’atto di presenza con la vitale dinamica lavorativa. Si tratta di spostare l’energia lavorativa di una significativa porzione di organico dal rispetto formale delle procedure alla risoluzione dei problemi. Una rivoluzione culturale!
Che fare?
A fronte di tale situazione organizzativa che potremmo definire di “latitanza gestionale di sistema”, che vede una notevole distanza tra le attuali dinamiche di funzionamento diseconomico e l’ipotesi di funzionamento più razionalizzato e trasparente ipotizzabile, gli intenti di intervento correttivo si confrontano con un oggettivo processo spigoloso di cambiamento per discontinuità.
I cambiamenti per discontinuità sono necessari nei sistemi organizzativi che, per inerzia o incapacità, non hanno saputo adattarsi nel tempo alle evoluzioni dei bisogni di mercato (nel nostro caso il mercato dei bisogni di salute), ed alle correlate ridefinizioni dell’assetto organizzativo e delle modalità quali-quantitative del suo funzionamento.
Le organizzazioni che sanno monitorare le richieste di mercato e adattarsi in itinere con coerenti aggiustamenti organizzativi, praticano la strategia di cambiamento incrementale. Una strategia che solitamente non provoca traumi sociali e difensività negli abitanti del sistema organizzativo, ma genera una cultura diffusa di continuo adattamento aziendale aziendale.
I cambiamenti per discontinuità, richiesti da organizzazioni che mostrano notevoli diseconomie d’impianto, destabilizzano la pur obsoleta quotidianità lavorativa, scardinano le garanzie di potere godute da alcuni attori organizzativi, minano le regole di relazione della commedia aziendale, turbano la diseconomica ma confortante routine di funzionamento della tribù aziendale.
Per questa ragione tali attività di cambiamento, si caratterizzano come una sorta di commissariamento organizzativo e sollecitano notevoli resistenze ed impopolarità sociali.
In questi casi le logiche di intervento richiedono due cautele per non invalidare con forti e diffuse resistenze l’attività di razionalizzazione aziendali:
In termini di cronologia d’intervento le prime attività suggeribili sono azioni formative che coinvolgano gli attori gestionali e specialistici implicati nelle aree di cambiamento. I soggetti coinvolti in tali processi di formazione saranno coinvolti direttamente nelle prime attività di modifica dell’impianto organizzativo. In sintesi le azioni di partenza suggeribili sono:
Dopo aver precostituito le condizioni sociali, attraverso la formazione e quelle strutturali, con la nascita della funzione di gestione e sviluppo del personale e di sviluppo organizzativo, si possono avviare progetti di revisione e nascita di sistemi operativi attraverso:
la creazione degli indicatori di dimensionamento delle risorse (organico, risorse economiche, spazio fisico, tecnologia, tempo) in grado di abbattere le diseconomie strutturali;
La selezione attitudinale dei soggetti gestionali
la caratteristica di massima complessità del sistema sanitario richiede capacità manageriali non comuni per poterla governare proficuamente.
In primo luogo, può essere utile riflettere sul “pluspotere di influenza organizzativa” che caratterizza l’esercizio dei ruoli direzionali di alto livello nell’organigramma aziendale. Questa dote di potere d’influenza è composta da più fattori oggettivi e soggettivi che possono così essere riassunti:
La possibilità di dispensare discrezionalmente risorse (budget, organico, tecnologia, spazio fisico, tempo), di influenzare notevolmente gli aspetti legati al sistema premio/sanzione (livelli retributivi, riconoscimenti/disconoscimenti sociali, criteri meritocratici, logiche sanzionatorie, sviluppi di carriera ecc.), rappresentano prerogative e attributi ratificati formalmente dall’organigramma, dall’oggettività del ruolo dirigenziale, indipendentemente dalla caratura soggettiva degli individui che lo ricoprono.
Le competenze manageriali richieste a chi governa centralmente sistemi complessi (per esempio direttore regionale della sanità, direttore generale ASL, direttore di distretto, direttore di dipartimento ospedaliero) non sono specialistico-sanitarie ma si rivolgono a grandi tematiche gestionali quali: la politica dei beni/servizi erogati dal sistema (marketing sanitario), la politica del personale, la politica di sviluppo dell’impianto organizzativo, gli aspetti strategici del controllo di gestione, la strategia finanziaria. Rispetto a queste competenze strategiche di sistema, le figure manageriali si possono avvalere di staff specialistici, in grado di farsi carico di approfondimenti e istruttorie di dettaglio utili a supportare i processi decisionali di vertice.
Un fattore soggettivo che concorre al composto alchemico, intangibile ma chiaramente percepibile, che si può definire “pluspotere direzionale”, è costituito dalla caratura di personalità leaderistica dei dirigenti. Il livello d’energia personale di influenzamento rispetto a persone e contesti organizzativi posseduto da un attore direzionale, legato al potere formale oggettivo di ruolo, può esercitare una forte funzione amplificante rispetto al pluspotere. La forza del ruolo sommata alla forza leaderistica di chi lo ricopre è in grado di influenzare culture aziendali, generare climi sociali diffusi e determinare le sorti, nel bene e nel male, di interi sistemi organizzativi. È chiaro che gli stili di leadership possono assumere caratterizzazioni molto diverse. La personalità di un leader può ispirarsi al comando autoritario, oppure alla negoziazione autorevole, può essere animata da intenti di controllo o essere guidata da uno spirito innovativo di sviluppo. Resta il fatto che una personalità leaderistica forte, coerente o incoerente essa sia rispetto alla tipologia del sistema organizzativo di riferimento, è destinata a influenzare comunque: contesti organizzativi, relazioni interpersonali, comportamenti sociali, risultati aziendali.
A parità d’organico, modelli di leader diversi inducono climi, pedagogie sociali diverse e prestazioni aziendali diverse. Un leader di stile autoritario tenderà a premiare i processi sociali d’obbedienza, tenderà a contornarsi di collaboratori obbedienti, cercherà di accentrare più decisioni possibili e minimizzerà i processi di delega, gratificando i collaboratori gregari e mettendo in cattiva luce i collaboratori dotati di spirito libero e protagonistico, da lui percepiti come disobbedienti.
Un leader dotato di uno stile autorevole e negoziale indurrà processi sociali collaborativi e collegiali, cercherà di contornarsi di collaboratori altrettanto autorevoli, accentrerà il governo delle decisioni strategiche, delegando progetti. decisioni organizzative ed operative a collaboratori affidabili e dotati di protagonismo. Non attribuirà rilevanza ai collaboratori supinamente obbedienti.
Uno stile di leadership che potremmo chiamare verticale e prescrittivo, tende ad accentrare il comando mentre uno stile di leadership che si può denominare orizzontale, tende ad accentrare il governo e delegare gli aspetti operativi e specialistici.
Il tratto di personalità fondamentale per ricoprire utilmente ruoli apicali complessi risiede nella notevole energia leaderistica. Chi dirige organizzazioni molto complesse, pluriprofessionali, decentrate, di grandi dimensioni si trova spesso coinvolto in prima persona nella gestione di conflitti di notevole intensità, con altrettanta frequenza si confronta con la necessità di prendere responsabilmente decisioni organizzative corrette ed utili, ma percepite negativamente da alcuni attori organizzativi. Questi eventi organizzativi sfidano la personalità degli attori gestionali e la loro capacità di reggere la solitudine nell’impopolarità. La gestione di tali processi critici di relazione richiede una forte energia e determinazione personale, unite alla capacità di governo degli stati emotivi per non perdere la lucidità mentale o per non cadere nella infruttifera, ma confortante, strategia del quieto vivere.
Chi riveste ruoli apicali non può non influenzare il sistema sociale che è richiesto di governare. Per paradosso, un soggetto che ricopre un ruolo apicale poco dotato di attitudine leaderistica, non potrà non influenzare notevolmente l’andamento organizzativo, poiché svuoterà con la pochezza di energia soggettiva il potere che è richiesto di esercitare. I dirigenti deboli in termini di energia leaderistica tendono a mettere in atto comportamenti di latitanza, omertà, di non governo e di pavidità decisionale. Un tale modello di svuotamento soggettivo del potere oggettivo, attribuito dal ruolo, produce fenomeni di disorientamento sociale nei collaboratori, genera processi di frantumazione del macrosistema organizzativo in sottosistemi familistici e induce dinamiche di esercizio di potere improprio agite, in periferia, da soggetti forti non legittimati da ruoli organizzativi.
Alla ricerca della coerenza tra profili manageriali di governo e caratteristiche specifiche dei sistemi organizzativi, possiamo cogliere alcune peculiarità della nostra sanità pubblica, in termini di indicatori di complessità organizzativa:
Questi sono alcuni indicatori che, rispetto alla maggioranza dei mondi aziendali, rendono la sanità pubblica ineguagliabile in termini di complessità organizzativa, richiedono ai manager sanitari una capacità non comune di visione olistica (sistemica), in grado di leggere e gestire i legami essenziali tra i diversi fattori organizzativi in gioco, senza stanziare troppa attenzione sui dettagli delle attività, per non distogliere lo sguardo dalla visione del sistema nel suo insieme.
Le esperienze manageriali Insegnano che in organizzazioni tendenzialmente mono-mercato, che producono volumi di beni o servizi standardizzati (aziende industriali: metalmeccaniche, meccatroniche, chimiche, bancarie, assicurative) la direzione aziendale può decidere centralmente la quali/quantità di produzione. Si tratta di organizzazioni relativamente semplici, nelle quali la struttura (la” “macchina organizzativa”) e le procedure, restringono gli spazi discrezionali della gran parte degli operatori aziendali. In questi casi si può parlare di organizzazioni più baricentrate sui fattori strutturali e procedurali che sulle persone, il valore aggiunto produttivo è più dovuto ai fattori oggettivi (tecnologici o procedurali) che alla soggettività degli individui. In tali sistemi organizzativi a tutti soggetti non direzionali è richiesta una pura e spesso dettagliata esecuzione delle decisioni prescritte dalla direzione. In queste condizioni aziendali può risultare efficiente uno stile di direzione verticale, improntato dal comando accentrativo e poco negoziale.
Nei sistemi organizzativi di elevata complessità come tutte le istituzioni educative (dall’asilo nido alle università) o di elevatissima complessità come la sanità pubblica, la quali-quantità delle prestazioni è decisa dalla improsciugabile discrezionalità professionale degli operatori, fino al livello più basso della catena gerarchica. In questi casi si parla di organizzazioni più centrate sul comportamento soggettivo professionale delle persone che sull’oggettività della struttura e delle procedure. Queste tipologie organizzative richiedono fidelizzazione, motivazione e necessitano di energia positiva, diffusamente canalizzata rispetto gli obiettivi organizzativi degli operatori, a tutti i livelli.
La notevole e improsciugabile discrezionalità professionale richiesta da questi contesti, il conseguente protagonismo diffuso fino all’ultima periferia territoriale, le pluriprestazioni personalizzate non standardizzabili, l’attenzione all’appropriatezza qualitativa che permea i sistemi sanitari, costituiscono condizioni che richiedono uno stile manageriale autorevole leaderisticamente forte e negoziale, giocato sulla capacità di orchestrare, coordinare, motivare gli attori organizzativi. Abbisognano di una strategia relazionale “orizzontale” basata sulla capacità d’ascolto e sul confronto reciproco, energetico ed efficace, più che sul comando accentrativo.
L’esercizio della negoziazione, del convincimento dialettico e l’attenzione rivolta alle leve motivazionali, rappresentano il collante centripeto di comunità professionali caratterizzate da protagonismo diffuso. Tali stili negoziali e di accentramento di governo orchestrato, sono in grado di tonificare i protagonismi professionali diffusi, mantenendoli all’interno di un perimetro motivazionale socialmente integrato dalla forza centripeta dell’appartenenza. Solo così è possibile mantenere le redini direzionali che governano il tutto e, contemporaneamente, creare climi di appartenenza collettiva delegando la gestione organizzativa e specialistica i soggetti a contatto con l’esercizio dell’attività diretta (proponendo la direzione per obiettivi e il conseguente monitoraggio dei risultati).
In ambienti organizzativi ad alta complessità come quelli della sanità pubblica italiana uno stile direzionale verticale, accentrativo e decisionista (della serie “uno solo al comando”) tenderebbe a soffocare le aree di protagonismo di cui il sistema ha bisogno per vivere e respirare. In tali contesti organizzativi l’assunzione di una strategia verticale e gerarchica tende a semplificare, e quindi a negare la complessità e castigare le potenzialità generative.
L’esercizio di uno stile accentrativo nella complessità del sistema sanitario pubblico è in grado di produrre climi difensivi, riti di accettazione formale e omertosa nei momenti ufficiali in presenza dei personaggi apicali, ma nel “retropalco organizzativo”, dove fluisce la concreta attività quotidiana lontana dalla gerarchia, si sviluppano dinamiche tribali di: frantumazione sociale ed organizzativa, di dipendenza, controdipendenza, di discrezionalità rivendicativa, di arbitrio gestionale. A fronte di un apparente e formale controllo prescrittivo del sistema si potrebbero scatenare reazioni protagonistiche in eccesso che, oltre ad essere espressione della naturale attività discrezionale, potrebbero caricarsi di tentazioni centrifughe, rivendicative, fino a giungere a condotte di sabotaggio del sistema. In sintesi, la pulsione gerarchica che tende ad ordinare e soffocare un sistema complesso sotto decisioni formali e semplificatorie invece di governare la discrezionalità professionale produce processi di anarchismo sostanziale ingovernabile. Comandare il protagonismo rappresenta un ossimoro organizzativamente costoso, al pari di prescrivere la democrazia.
In ragione delle precedenti riflessioni, si può affermare che i profili manageriali di alta integrazione di sistemi organizzativi complessi sono caratterizzati da alto valore aggiunto in termini di tratti di personalità e medio di competenze gestionali. Pertanto, per i manager di alto livello gestionale sono più significative le doti della persona rispetto alle competenze del professionista; ne deriva che la selezione attitudinale è fondamentale nella scelta dei dirigenti di vertice.
Le ricerche neuroscientifiche attestano che le competenze di mestiere si possono acquisire per tutta la vita organizzativa. Per tale ragione una mancanza di competenze può essere colmata con attività formative.
Le attitudini rappresentano tratti profondi di personalità. Ancora le neuroscienze affermano che l’edificazione dei tratti di personalità individuale (l’imprinting della personalità), innervano la nostra esperienza di vita e si consolidano mediamente nel periodo di adolescenza matura degli individui fine dell’adolescenza. A 18 – 20 anni d’età le nostre caratteristiche di fondo di personalità sono palesi appaiono anelastiche e il profilo attitudinale peculiare di ogni individuo rappresenterà un’impronta stabile e distintiva per tutta la sua l’avventura di vita. Ne deriva che una evidente mancanza di attitudini, non è colmabile con la formazione. Se si sbaglia a collocare attitudinalmente un soggetto in un ruolo di comando, o si subiscono le conseguenze negative irradiate su tutto il contesto organizzativo di sua pertinenza, o lo si ricolloca in funzioni più coerenti con le sue attitudini.
Nei ruoli gestionali di alto livello, la coerenza tra i tratti di personalità individuale ed i tratti richiesti dall’esercizio di ruolo, rappresenta il fattore estremamente influenzante la qualità ed i costi della sanità pubblica.
Per tali ragioni i ruoli apicali nel sistema sanitario pubblico (Direttori Regionali, Direttori ASL, Direttori del Personale, Direttori Amministrativi, Direttori sanitari, Direttori di Dipartimento, Direttori di Distretto) andrebbero selezionati, in merito alle competenze ed esperienze precedenti ma soprattutto attraverso colloqui professionali di analisi della personalità.
La selezione attitudinale dei candidati non può prescindere dalla applicazione della metodologia del colloquio. I colloqui di selezione vanno gestiti da persone competenti in termini di selezione comportamentale.
Le esperienze italiane di selezioni attitudinali di Direttori Generali ASL condotte nella Regione Friuli Venezia-Giulia nel 1996, nella Regione Puglia 2010, nella Regione Piemonte 2014, nella Regione Sardegna 2017 (in questo caso la selezione era rivolta ai Direttori di Area Socio Sanitaria), hanno dato segnali più che positivi.
Le esperienze di selezione attitudinale precedentemente citate, nascevano dall’intento delle committenze politiche regionali di adottare criteri trasparenti ed efficaci nella scelta di candidati a ruoli così importanti nel campo della sanità pubblica.
Lo scopo era quello di presidiare i processi di selezione restringendo il campo della discrezionalità/arbitrio politico-partitica all’interno di una rosa di candidati che, tra il totale dei pretendenti, venisse preselezionato. Tale rosa di preselezionati, sarebbe stata definita da commissioni esperte, adottando il criterio di scelta per avvicinamento al profilo attitudinale atteso e definito con la committenza politica.
Sulla scorta dell’esperienza della regione Puglia nel 2011 è stata definita, per la prima volta, dall’allora Ministro della salute Renato Balduzzi una normativa che modificava le modalità di selezione dei Direttori Generali delle ASR (Aziende Sanitarie Regionali). Infatti nel decreto legge n° 158/2012, poi convertito nella legge n°189/2012, si disponeva che la regione provvedesse alla nomina dei Direttori Generali delle aziende ed enti del Servizio Sanitario Regionale, attingendo obbligatoriamente dagli elenchi regionali dei soggetti ritenuti idonei.
La selezione, che prevedeva interviste rivolte alla rosa di candidati finali, si sarebbe tenuta secondo modalità e criteri individuati dalla Regione, tramite una commissione costituita dalla Regione medesima con un membro scelto dalla Agenzia Nazionale della Sanità, attingendo esperti in processi di selezione indipendenti dalla Direzione Regionale.
Successivamente il governo centrale (con qualche resistenza dei Presidenti Regionali) è nuovamente intervenuto normativamente (col decreto legislativo del 4 agosto del 2016 n°171) per precisare meglio le modalità di selezione, prevedendo un elenco nazionale dei candidati da aggiornare biennalmente ma soprattutto ribadendo che il processo di selezione andava tenuto da Commissioni competenti nella valutazione per titoli e colloquio individuale.
Per consolidare organizzativamente un tale modello di selezione dei soggetti che dovrebbero ricoprire ruoli apicali, si trattava già allora di formare risorse interne alla Sanità Pubblica in grado di diffondere questo metodo di selezione, magari costituendo un gruppo di referenti di selezione composto da soggetti competenti ed attitudinali, di provenienza sia regionale che nazionale.
Da allora, nei fatti, si è privilegiata una applicazione più formale che sostanziale di accesso all’elenco nazionale dei candidati e per quanto riguarda i colloqui, si è privilegiato il nozionismo più che le valutazioni attitudinali. In alcuni casi i colloqui non sono stati nemmeno effettuati.
Così la prassi selettiva di ruoli altamente influenzanti la Sanità Pubblica tende, nel tempo, a cancellare una norma ispirata a ideali di trasparenza e meritocrazia e sostituirla con la tradizionale prassi di selezione guidata da criteri opachi di obbedienza a cordate politiche.
Un altro problema deriva dai livelli premianti e retributivi attribuiti a ruoli di alta responsabilità gestionale sanitaria. I criteri retributivi di ogni azienda rappresentano un implicito riconoscimento di status e d’importanza attribuita ai ruoli dalle medesime organizzazioni.
Prendiamo come esempio il ruolo di direzione generale di un’azienda industriale di dimensione medio-grandi, di gran lunga meno complessa da gestire e meno carica di responsabilità gestionali di una direzione generale di ASL. Se compariamo la retribuzione media attribuita dal mercato privato a tali incarichi scopriremmo che ha dimensioni quasi doppie di quella di una direzione generale nel mercato della sanità pubblica. La stima inadeguata che il sistema sanitario attribuisce a tali importanti funzioni, tenda a calamitare modesti appetiti di carriera e soggetti di altrettante modeste doti gestionali. Solo ad eccezione sfuggono ai generali criteri selettivi rari soggetti di buona caratura gestionale spinti da un ammirevole volontarismo valoriale.
Se aggiungiamo il fatto che la selezione dei personaggi destinati a ricoprire tali ruoli apicali è spesso ispirata da scelte politico-partitiche di retropalco, alla ricerca di personaggi gregari ed obbedienti, scopriamo che il sistema retributivo oggi vigente è sovra-premiante per tali soggetti quanto è sotto-premiante per i pochi dirigenti autorevoli e capaci.
La sottovalutazione della qualità dei ruoli direzionali, i criteri di selezione non trasparenti e spesso familistici, la retribuzione economica inadeguata, rappresentano fattori concorrenti alla dinamica organizzativa che vede personaggi di quarta fila del “sistema politico” abitare abusivamente ruoli altamente influenzanti di vertice del “sistema sanitario”.
Una tale invasione organizzativa trasforma la naturale influenza delle istituzioni politiche sul sistema sanitario in vera e propria ingerenza. Si snatura così la fisiologica meritocrazia professionale, sostituendola con la partitocrazia, a scapito delle competenze e soprattutto delle abilità gestionali.
Questo approccio di scelta dedicato alla copertura dei pochi ruoli altamente influenzanti il sistema della salute pubblica, inquina le strategie direzionali di una azienda così complessa, a scapito della qualità e dell’economicità delle prestazioni, proponendo una logica ottusa di occupazione a breve (elettoralistica) di posizioni di potere, con personaggi poco capaci che degraderanno, a media ed a lunga scadenza, il sistema Sanitario e con esso l’immagine degli stessi politici, proponenti le dubbie candidature.
Rischi del Recovery Fund gestito in latitanza di politica gestionale centrale
In termini generali la disponibilità del recovery fund rappresenta una ghiotta risorsa per razionalizzare il sistema sanitario.
Potrebbe proporsi come occasione unica per snellire strutture organizzative appesantite da ruoli ridondanti e povere di ruoli necessari, frutto di evoluzioni di carriere non formalmente tutelate e perciò non funzionali al lavoro ma abbandonate alla micronegoziazione informale di interessi soggettivi.
La necessità di utilizzo oculato del recovery fund potrebbe rappresentare una spinta epocale tesa a sostituire con protocolli di lavoro trasparenti la selva di adempimenti che rallentano ed ingessano l’attività organizzativa. Procedure che inducono recite burocratiche in obbedienza a copioni formali, spesso indipendenti dal loro senso. e disabituano gli individui a ragionare efficacemente per obiettivi e per soluzione dei problemi.
Questo momento storico di possibile rifondazione efficace del sistema sanitario pubblico suggerisce di non perdere l’attuale occasione di razionalizzazione.
La rivisitazione organizzativa dovrebbe evitare di allocare le risorse sulla base di richieste frantumate e settoriali, bensì partire da una analisi complessiva dei bisogni del Servizio Sanitario Nazionale, al fine di ripensare una configurazione organizzativa coerente col fare, col rispondere ai bisogni dei cittadini, senza disperdersi nei labirinti burocratici dei bisogni e delle difensività interne al sistema.
Senza una revisione organizzativa d’efficienza (costi) e di efficacia (appropriatezza), delle prestazioni sanitarie, molte delle risorse finanziarie del recovery fund finirebbero divorate dalle diseconomie del sistema, dagli stalli e dalle entropie attivate da soggetti pronti a riempire d’interessi personali, a volte illeciti, gli spazi non organizzati in termini di trasparenza e controllo organizzativo. Le notevoli risorse finanziarie in gioco sono un’occasione unica di investimento positivo ma sollecitano anche appetiti per nulla etici.
Con uno sguardo rivolto al sistema sanitario nazionale nel suo insieme si può affermare che la pandemia ha messo in risalto alcune ambiguità di attribuzioni gestionali esistenti tra stato e regioni, ma soprattutto alcuni ruoli a volte non agiti da parte dello Stato, a cui compete il governo unitario della logica sanitaria, per dettato della Costituzione.
Una normativa lasca ha previsto in alcuni casi una sovrapposizione non chiarita di responsabilità decisionali da condividere tra centro e periferie. Come era prevedibile, l’area normativa comune di ideale condivisione negoziale tra regioni e governo centrale è stata interpretata da molte regioni, alle quali compete la gestione operativa della Sanità, come area di conquista territoriale.
Sta di fatto che, questa pilatesca non distinzione puntuale di aree ritenute di decisioni strategiche o sovraterritoriali (nazionali), rispetto alle aree di decisioni gestionali adattate ai territori (regionali), nel tempo, è stata invasa, spesso in assenza di un’autorevole presenza statale, da una regionalizzazione non sempre competente e talvolta anarchica.
In momenti storici di ordinaria amministrazione il livello apicale nazionale ha mantenuto una strategia di lontananza, di “ventre molle”, accettando configurazioni e valori di riferimento della sanità pubblica specifici di ogni regione, in assenza o in palese dissenso rispetto alle poche ed episodiche indicazioni del livello nazionale (vedasi ad esempio alcune riforme regionali incoerenti con le leggi nazionali e non impugnate dallo stato)
A fronte di imprevisti globali come il Covid, che richiedono strumenti, centrali, nazionali o sovranazionali di gestione generale di un fenomeno pandemico, si scopre che poche regioni possiedono, seppur imperfetto, un’anagrafe vaccinale strutturata, molte non la hanno per nulla. A livello nazionale non si sono posti con forza il problema. Questo è solo un piccolo esempio dell’assenza di una banca dati nazionale che aiuterebbe l’organizzazione delle vaccinazioni di massa.
Il risultato è che in assenza di un riferimento centrale e ideale comune, si sono consolidate nelle regioni configurazioni di organizzazione sanitaria diverse, non per legittime esigenze di adattamento ai bisogni del territorio, ma per scelte autonome e politiche regionali. Spostando, di fatto, il baricentro istituente dallo Stato alle Regioni. Poiché alle diverse logiche di configurazione organizzativa della sanità corrispondono prestazioni sanitarie diverse, nel nostro paese, più che di sanità nazionale si può parlare una sommatoria poco coordinata di sanità regionali.
Nelle organizzazioni complesse e diffuse territorialmente tutti i dati di monitoraggio e controllo sono gestiti direttamente dalla sede centrale, per il fatto che le sedi periferiche sono implicate nel conflitto d’interesse che nasce dall’essere molte volte coinvolte sia nel ruolo del soggetto valutato sia in quello del valutatore. Conflitto che spesso spinge i valutati, per convenienza, ad esercitare forzature sui dati di valutazione, al fine di apparire, per convenienza, diversi dalla realtà fattuale, da quello che realmente sono (come è avvenuto a volte in merito con la produzione dei dati epidemiologici regionali del Covid).
Un governo centrale coraggioso potrebbe sfruttare la spinta alla digitalizzazione richiesta dal recovery fund per accentrare maggiormente a livello nazionale, monitoraggio, coordinamento e controllo delle prestazioni erogate dal sistema. Il fenomeno di diffusione della digitalizzazione non rappresenta solo un processo di aggiornamento tecnologico. La digitalizzazione è un potente strumento di sviluppo organizzativo e di governo generale, se è sensatamente progettata ai fini di ottenere maggiore trasparenza, visibilità e consapevolezza di fenomeni complessi.
Si possono gestire i fenomeni dei quali si ha consapevolezza, in assenza di consapevolezza, sono i fenomeni che implicitamente ci gestiscono.
Ecco alcuni esempi di programmi digitalizzabili:
Appare evidente la necessità di istituire strutture funzionali interne al sistema sanitario pubblico, dedicate alla costruzione e gestione dei sistemi informativi. Di conseguenza va curata la selezione di figure specialistiche e gestionali dedicate ai fenomeni di digitalizzazione. Contemporaneamente vanno progettati percorsi formativi universitari e post-universitari strutturati, per il top management ma anche per il middle management da proporre non solo alle aziende sanitarie ma soprattutto alle direzioni regionali e nazionale.
Una digitalizzazione sensata è alleata della trasparenza, figlia dei dati reali che, a sua volta, è alleata delle negoziazioni che fanno appello alla “testa” più che alla “pancia”. La digitalizzazione funzionale evoca l’intelligenza della ragione e mette in ombra le passioni legate agli interessi emotivi di parte o di natura pregiudizialmente ideologica. La digitalizzazione di fenomeni organizzativi generali costituirebbe la rappresentazione metaforica delle redini informative e di monitoraggio che permetterebbero al centro nazionale di vedere, guidare, controllare e sviluppare piani strategici di gestione legittima del sovrasistema della sanità nazionale. Chiarite le responsabilità gestionali strategiche nazionali, apparirebbero più chiare le deleghe gestionali operative e di adattamento ai bisogni dei territori, da affidare al decentramento regionale. In tal modo sarebbe più facile proporre aggiustamenti normativi sensati.
È chiaro che per tutelarsi dalla pratica levantina di manipolazione dei dati digitalizzati appare utile affiancare i processi defisicizzati col deterrente di significativi controlli fisici a campione, magari istruiti da apparati terzi.
La digitalizzazione oltre alla tecnologia richiede stanziamento di organico per il controllo di veridicità dei dati, il che sollecita la nascita di apposite funzioni aziendali e maggiori assunzioni in organi di controllo (controllo di gestione, controllo finanziario, agenzie di certificazione ed affini).
I presenti spunti di cambiamento potrebbero, con pochi adattamenti, estendersi a tutte le amministrazioni pubbliche e quindi rappresentare un forte strumento di sburocratizzazione del nostro sistema.
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