Al Forum Risk Management di Arezzo, un documento congiunto a firma di vari stakeholders nazionali riflette e delinea contesto e strategie per la valorizzazione del personale del servizio sanitario nazionale alla luce dell’esperienza post pandemica.
01 DIC – Valorizzazione del personale del Servizio sanitario nazionale nell’ottica di una nuova governance. Sono queste le conclusioni di un Documento a firma congiunta di vari stakeholders nazionali, sottoscritto nel corso del Forum Risk Management di Arezzo durante l’evento organizzato da Federsanità “Valorizzazione risorse umane nuove politiche per il personale del Ssn”.
Tre i punti chiave: intervenire sul contesto in cui opera il management, contrastando le spinte verso un “management difensivo”, rafforzando i meccanismi di incentivazione e investendo su formazione e selezione; affrontare la questione professionale: è opportuno intervenire sul terreno dello skill mix change, rendendo possibile il pieno sfruttamento delle potenzialità delle professioni sanitarie, stimolando il loro riconoscimento e apprezzamento, sostenendone capacità e qualificazione; favorire la diffusione di logiche di gruppo regionale nella gestione del personale e al contempo rafforzare il ruolo e le capacità delle aziende sanitarie.
La crisi pandemica, un contesto cioè del tutto eccezionale, ha messo in evidenza con forza il potenziale del SSN ma anche le sue criticità e debolezze. Il personale (operatori, professionisti, manager) che è il fattore produttivo più importante per il SSN, e le sue Aziende, in condizioni di allentamento dei vincoli e di riscoperta della missione, hanno dimostrato tutte le loro potenzialità e reso pienamente evidenti le energie che possono essere messe a disposizione del sistema pubblico di tutela della salute. Il sistema ha rivelato una capacità di reazione in molti casi sorprendentemente positiva mentre in altri casi ha manifestato rilevanti criticità. Bisogna sottolineare come la natura pubblica e professionale delle Aziende del SSN non abbia aiutato a considerare le persone come risorse il cui contributo possa e debba essere stimolato e orientato. Da questo punto di vista, non solo è stata prestata poca attenzione a come intervenire, attivamente e intenzionalmente, su alcune condizioni generali che influiscono sui contributi che gli individui possono apportare al funzionamento aziendale, ma la stessa funzione di gestione del personale è, tra le aree gestionali, quella che ha segnato il più evidente ritardo nei processi di aziendalizzazione. La immissione senza precedenti di risorse che rappresentano un potenziale di cambiamento e innovazione mai sperimentato e difficilmente replicabile rischia – senza mettere in atto interventi mirati e quindi in una situazione di inerzia organizzativa – di rappresentare una “replica del passato” e non un “sentiero verso il futuro”.
In altre parole è questo il momento di spingere l’acceleratore sui cambiamenti così necessari ed essenziali. D’altra parte tutte le Aziende sono fatte di persone e i loro risultati non sono altro che il frutto delle decisioni, delle azioni e degli sforzi di esseri umani. Da questo punto di vista governare e gestire Aziende e sistemi significa orientare il comportamento di individui e metterli in grado di offrire il miglior contributo possibile al perseguimento della missione. Ciò è tanto più vero nell’ambito della sanità in quanto si tratta di un settore ad alta intensità di lavoro (labour intensive), ma soprattutto a elevata qualificazione professionale (brain intensive).
Tiziana Frittelli Presidente Federsanità Fulvio Moirano Fucina Sanità Francesco Longo SDA Bocconi Federico Spandonaro Università di Roma “Tor Vergata” Alberto De Negri KPMG Domenico Grimaldi esperto Federsanità Marta Branca Dirigente ARAN Giorgio Simon DS Centro Progetto Spilimbergo
Nel primo tavolo di confronto regionale organizzato da Fondazione Charta le proposte degli esperti per investire al meglio i fondi del PNRR tra integrazione ospedale-territorio e innovazioni terapeutiche
30 SET – Gestire l’innovazione terapeutica nell’ambito dell’osteoporosi. È stato questo l’argomento al centro del primo incontro virtuale di una serie di tavoli regionali organizzati da Fondazione Charta dal titolo “Open discussion sul valore delle nuove terapie farmacologiche nel trattamento dell’osteoporosi severa in donne in post-menopausa ad alto rischio di frattura”.
Il convegno ha voluto affrontare la tematica in Regione Puglia e ha visto la partecipazione di Achille Caputi, Professore ordinario Farmacologia, Università di Messina; Paolo Cortesi, Farmaco-Economista, Università degli studi Milano-Bicocca; Fondazione Charta; Fulvio Moirano, CEO, Fucina Sanità; Francesco Colasuonno, Farmacista, Servizio Politiche del Farmaco, Regione Puglia; Ada Corrado, Professore Associato di reumatologia dell’Università di Foggia; SC di Reumatologia, Azienda Ospedaliero-Universitaria OORR Foggia; Alfredo Scillitani, Dirigente medico della unità operativa complessa di Endocrinologia, Casa sollievo della sofferenza, San Giovanni Rotondo (FG); Vincenzo Gigantelli, Direttore Dipartimento Assistenza Territoriale ASL BARI; Direttore Distretto Socio-Sanitario n. 14 Putignano; Presidente Associazione Scientifica CARD PUGLIA; Cataldo Procacci, Farmacista, Dipartimento Farmaceutico, ASL BAT (Barletta-Andria-Trani); Rossella Moscogiuri, Direttore Dipartimento Farmaceutico e Direttore UOC Farmacia Ospedaliera Presidio Ospedaliero Centrale di Taranto, ASL Taranto; Domenica Daniela Ancona, Direttore del Dipartimento Farmaceutico, ASL BAT (Barletta-Andria-Trani); Marco Benvenuto, docente di Public Management presso Dipartimento di Scienze dell’Economia, Università del Salento, Esperto scientifico esterno Agenzia Regionale per la Salute e il Sociale (AReSS), Regione Puglia. Per poter parlare di innovazione terapeutica e di costo efficacia è necessario inquadrare prima la patologia, le sue risultanze sul Servizio sanitario nazionale e sui pazienti ed i precedenti trattamenti. L’osteoporosi è una malattia sistemica dell’apparato scheletrico, caratterizzata da una bassa densità minerale e dal deterioramento della micro-architettura del tessuto osseo, con conseguente aumento della fragilità ossea. Questa situazione porta ad un aumentato rischio di frattura (in particolare di vertebre, femore, polso, omero, caviglia) per traumi anche minimi. L’incidenza di fratture da fragilità (FF) aumenta con l’aumentare dell’età, particolarmente nelle donne. Nel corso della vita, circa il 40% della popolazione incorre in una frattura e in Italia si stima che l’osteoporosi colpisca circa 5.000.000 di persone, di cui l’80% sono donne in post menopausa. Le FF per osteoporosi hanno rilevanti conseguenze, sia in termini di mortalità che di disabilità motoria, con elevati costi sia sanitari sia sociali. Inoltre, l’effetto della terapia antifratturativa è tanto maggiore quanto maggiore è il rischio iniziale.
Si capisce bene quanto sia importante per questa patologia l’azione di prevenzione primaria e secondaria. Come precisato da Achille Caputi, il rischio di una seconda frattura osteoporotica aumenta durante l’intero follow up e il rischio rimane imminente anche negli anni successivi. Inoltre, nelle donne in menopausa, una frattura, indipendentemente dall’essere traumatica o meno, comporta un rischio aumentato di nuova frattura. Ecco perché è importante intervenire tempestivamente con una terapia farmacologica: “Se andiamo a considerare i trial clinici vs placebo o vs vitamina D, vediamo che qualunque trattamento oggi disponibile comporta una riduzione del rischio di rifrattura. Possiamo quindi dedurre – ha precisato Caputi – che i soggetti che hanno già subito una frattura da fragilità sono maggiormente a rischio di ulteriori fratture e che il rischio aumenta al crescere del numero e della severità delle precedenti fratture. Inoltre, il rischio sembra elevato immediatamente dopo la prima frattura specialmente nell’anno seguente e tale condizione e rimane fino ai 10 anni successivi”. I farmaci che sembrano agire in modo più efficace nella prevenzione di una rifrattura “sono i farmaci anabolizzanti come la teriparatide o il romosozumab”, ha proseguito l’esperto.
Ma facciamo un passo indietro.“L’osso viene continuamente rimodulato: abbiamo due distinti meccanismi, uno di modellamento osseo in cui la formazione dell’osso inizia direttamente dagli osteoblasti su superfici quiescenti e poi abbiamo un rimodellamento osseo che inizia nel momento in cui l’osso comincia ad essere distrutto dagli osteoclasti”, ha spiegato Caputi. Questo meccanismo, che si ripete nel tempo, può subire modificazioni con il passare del tempo. La premessa è doverosa per inquadrare meglio l’argomento. Negli anni la ricerca scientifica è infatti riuscita ad intervenire, grazie a farmaci specifici, su questo meccanismo. Per molto tempo la cura dell’osteoporosi si è basata su una classe di farmaci cosiddetta ad antiriassorbimento, farmaci questi di prima linea che intervengono sugli osteoclasti e che riducono il rischio di fratture, ma che non intervengono sulla stimolazione degli osteoblasti e quindi sulla ricostruzione dell’osso. Con l’innovazione, grazie ai farmaci anabolici, siamo arrivati anche a questa nuovo approccio terapeutico. Il problema di questi ultimi è che “dopo aver eseguito una terapia con anabolici, sarà necessario un farmaco antiriassorbimento per evitare il declino della densità ossea”.
L’ultima frontiera dell’innovazione ci fa capire meglio quanto sia necessario un radicale cambiamento nel trattamento delle fratture da fragilità. “Nel processo di modellamento e rimodellamento dell’osso agisce anche la sclerostina, una glicoproteina prodotta dagli osteociti, la cui attività è quella di inibire l’attività degli osteoblasti. Bene, inibire con un anticorpo monoclonale la sclerostina porta naturalmente ad un aumento di formazione dell’osso”. Appare evidente quindi che “nei pazienti con rischio molto elevato (di rifrattura ndr), la terapia con farmaci ad attività anabolica o bone builder deve essere considerata di prima linea”, ha precisato Caputi. “Studi di comparazione tra farmaci anabolici/bone builder e anti-riassorbitivi suggeriscono inoltre di iniziare subito la terapia anabolicain questi pazienti ad alto rischio. Non solo, se confrontiamo i farmaci anabolizzanti con l’anticorpo anti-sclerostina, notiamo che quest’ultimo agisce molto prima ed in maniera molto più rapida con conseguente beneficio per i pazienti”.
Dello stesso parere è apparso Alfredo Scillitani che ha spiegato come “con l’andare avanti dell’età la formazione e il riassorbimento sono sostanzialmente in equilibrio, mentre nell’osteoporosi menopausale il bilancio è in negativo. Con dei farmaci antiriassorbimento, quindi anticatabolici, nel breve tempo si ha un recupero della massa ossea”, ma tale recupero non permane nel lungo periodo. “I farmaci anabolici invece comportano un bilancio nettamente positivo non solo con un rimodellamento positivo, ma anche con un’azione di nuova formazione ossea”, ha detto Scillitani. “Diversi studi dimostrano che i farmaci anabolici sono più efficaci sulle fratture imminenti, con una riduzione significativa della incidenza di nuove fratture, sia rispetto a placebo che rispetto a farmaci antiriassorbitivi”. L’anticorpo monoclonale antisclerostina, poi, porta “ad un aumento della formazione e ad una riduzione del riassorbimento osseo. Questo anticorpo, il romosozumab, potrebbe essere utilizzato in prevenzione, per il trattamento dell’osteoporosi in donne in post menopausa, in cui l’incidenza di nuove fratture vertebrali si riduce nel tempo. Inoltre è anche efficace nella transizione cioè in donne in post menopausa con osteoporosi già trattate con bifosfonati”, ma le evidenze scientifiche più importanti per il romosozumab riguardano la sua capacità di “aumentare la formazione ossea e al contempo di ridurre il riassorbimento osseo”. Un netto cambiamento di paradigma nel trattamento dell’osteoporosi che, anche grazie ai fondi del PNRR, potrebbe essere accolto con favore.
I costi sono ovviamente l’altra faccia della medaglia. In ottica di carico economico “l’impatto maggiore è dato dalle fratture”, ha rimarcato Paolo Cortesi. Queste comportano dei costi “sia nel breve periodo, per la gestione della frattura stessa, sia nel lungo periodo per la gestione delle conseguenze. Naturalmente ci sono differenze a seconda del sito di frattura, con la frattura all’anca che rappresenta una delle sedi più gravi perché quasi sempre comporta ricovero”, ha proseguito l’esperto. L’ospedalizzazione è l’aspetto principale legato ai costi diretti a carico del Servizio sanitario nazionale. “Rispetto ad altri paesi europei, in Italia la durata media di ospedalizzazione è molto alta, attestandosi sui 19 giorni, con un costo medio per le fratture d’anca di circa 21 mila euro per paziente. Per quanto riguarda i costi associati alla frattura – ha specificato – in Italia parliamo di circa 9 miliardi e mezzo all’anno. Questi costi, facendo una stima, potrebbero arrivare a 12 miliardi nel 2030”. A questi costi si aggiungono quelli legati alla perdita di produttività dei soggetti con osteoporosi. Nonostante la maggior parte delle fratture da fragilità si verifichi in pazienti anziani, quando ciò avviene in età lavorativa, in Italia, si stima “che si perdano circa 95 giorni lavorativi per mille individui”. A questo si legano anche i costi riguardanti l’assistenza del paziente da parte di famigliari e caregiver.
Migliorare la cura dell’osteoporosi puntando sulla prevenzione delle fratture e quindi ridurre i costi a queste associati sono una sfida complessa per i servizi sanitari, ma è anche una di quelle sfide che passa necessariamente dall’innovazione terapeutica. “Da uno studio svedese condotto su una sequenza di trattamenti basati sull’anticorpo monoclonale romosozumab”, ha spiegato Cortesi, “si evince una riduzione dei costi legati alle morbidità e alle ospedalizzazioni, un aumento di investimenti in termini di spesa farmaceutica a fronte però di un aumento di QALY, cioè anni di vita aggiustati in base alla qualità, e un aumento di aspettativa di vita. Sono fondamentali quindi approcci atti a prevenire le fratture per diminuire questo carico gestionale di risorse”.
L’altro aspetto riguardante la patologia che purtroppo spesso viene sottovalutato riguarda la sfera psicologica, come ben sottolineato da Ada Corrado. L’osteoporosi può infatti portare anche a disturbi quali “depressione, bassa autostima, isolamento sociale, disturbi del sonno e ritiro da attività lavorativa”. Ecco, “tale aspetto – ha precisato l’esperta – non sempre è preso in considerazione adeguatamente. La depressione infatti non solo è una conseguenza della frattura, ma diversi studi hanno dimostrato che potrebbe avere un effetto negativo anche sul metabolismo osseo”. È necessario quindi riuscire ad identificare precocemente i pazienti a rischio di fratture, con specifici esami di riferimento, per avviare i trattamenti appropriati e prevenire così anche le ricadute sociali di questa patologia.
Il cambio di paradigma deve essere affrontato non solo per ciò che riguarda la gestione della terapia farmacologica, va fatto anche a livello organizzativo dall’alto. A ravvisare però qualche perplessità sulle effettiva possibilità di un cambiamento vero è Fulvio Moirano. “C’è un problema di comprensione tra i vari operatori che si occupano di questi temi, dal ministero della Salute e dalle Regioni, da una parte, e dal ministero dell’Economia dall’altra”. Da sempre i decisori hanno posto la loro attenzione sul problema dei costi e della spesa ma con l’arrivo dei 15,6 miliardi previsti per la Missione salute dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza sembra che “tutto il sistema sanitario pensi che il tema della compatibilità economica non ci sia più”, ha precisato Moirano. “A mio parere, invece, c’è il rischio che ci sia anche di più nelle fasi successive se non saremo in grado di utilizzare questi finanziamenti. Se metteremo in campo iniziative che prive della compatibilità economica che pensiamo, ci troveremo solo costi aggiuntivi senza avere più il finanziamento”. Una occasione questa più unica che rara che sarebbe grave non saper cogliere.
Ma perché parliamo di problema di governance. Come fa notare Moirano, la pandemia ha messo in evidenza un tema importante: la deroga delle norme e delle leggi preesistenti. “Lo stato ha dovuto derogare sia in termini di assunzioni sia in termini di acquisizioni di beni e servizi, prendendo atto quindi che le procedure che avevamo non erano efficaci. C’è quindi da fare un ripensamento di tutte le procedure sia per l’introduzione dell’innovazione sia per la gestione della quotidianità”, ha precisato ancora l’esperto. “Serve ora mettere in pratica ciò di cui si parla da anni”, cioè rendere concreti gli interventi sul territorio. Per fare questo c’è bisogno di “riempire di contenuto le case di comunità, previste nel PNRR, per fare della prevenzione primaria e secondaria sul territorio. Stiamo parlando di 8milioni di pazienti cronici, stiamo parlando di una patologia cronica che avrebbe possibilità di prevenzione”.
La via da percorrere delineata da Moirano sarebbe quella di eliminare totalmente tutte le attività non necessarie all’interno dell’ospedale per poter recuperare i fondi da investire poi nel territorio con particolare attenzione alla medicina generale.
Segue la linea del dubbio anche Vincenzo Gigantelli il quale auspica però anche una sorta di Rinascimento della sanità italiana portata proprio dagli investimenti del PNRR. “Noi stiamo parlando di condizioni croniche”, ha ribadito Gigantelli. I destinatari della corretta gestione di queste situazioni sono “gli attori del territorio i quali devono lavorare in maniera coordinata e sinergica con i colleghi del livello ospedaliero. Parliamo quindi dell’area geriatrica, dell’area medica e di tutte le discipline che possono interessare le patologie osteoporotiche. La cornice che, in Italia, doveva rappresentare il piano organizzativo della gestione della cronicità si riferisce al Piano nazionale della cronicità che ha ormai compiuto 5 anni e questi anni sono trascorsi senza che un rimodellamento del Servizio sanitario nazionale vi sia stato. Questo perché il processo che anche qui in Regione Puglia è stato avviato, per una serie di fattori non è mai partito del tutto”, ha detto l’esperto.
Inoltre, “il Piano nazionale della cronicità, nella parte seconda, di malattia osteoporotica non parla eppure questa è una patologia che ha rilevanza epidemiologica, ha aspetti di gravità e invalidità e richiede un peso assistenziale con costi economici diretti e indiretti. A volte non si ha bisogno di scrivere un PDTA per avere contezza delle cose da fare, a volte bisogna soltanto imparare a leggere i bisogni dei cittadini, bisogni che si aggravano con l’età, con le condizioni patologiche e con le comorbidità”. Oggi con i fondi del PNRR a disposizione questo discorso va tenuto ben presente per investire nel modo più efficiente. “Questo è un piano che deve trasformare le strutture già esistenti in strutture di prossimità, in case della comunità”, ha proseguito Gigantelli. Per la Puglia l’esempio è quello dei presidi territoriali di assistenza (PTA), “ex presidi ospedalieri riconvertiti a un uso territoriale che ben si prestano a diventare il luogo fisico di quella gestione integrata che è necessaria per la malattia osteoporotica come per tutte le patologie croniche che richiedono un follow up nel tempo. Il primo passo, quindi, è una riforma territoriale da cui deriveranno degli standard che non siano solo frutto di calcolo matematico, ma anche il frutto di una azione pensata e monitorata perché diventi un’azione concreta”, ha concluso Gigantelli.
In Regione Puglia, ha aggiunto Francesco Colasuonno, “abbiamo una Commissione tecnica Regionale dove si sta cercando di spingere la promozione di iniziative di integrazione tra specialisti ospedalieri e ambulatoriali e medici di medicina generale e pediatri di libera scelta”. Per quanto riguarda la spesa farmaceutica per le malattie osteoporotiche, “in Puglia di aggira intorno ai 510 milioni” con un’ampia fetta, circa 256 milioni, dedicati alla vitamina D e analoghi e circa 138 milioni per farmaci quali teriparadite e anticorpi monoclonali. Analizzare questi dati, ha precisato Colasuonno, è importante per cercare di ottimizzare gli interventi di spesa che attualmente sono focalizzati su una maggiore “quantità di prescrizioni di farmaci meno costosi”. La sfida sarà quindi quella di integrare le innovazioni farmacologiche in arrivo.
L’importanza del datoè stata sottolineata anche da Cataldo Procacci che ha posto l’accento anche sul ruolo che il farmacista è chiamato ad assolvere nella gestione del consumo di risorse farmaceutiche. Nell’ottica di un cambiamento di paradigma del sistema sanitario, ha spiegato Procacci, serve ripensare la spesa farmaceutica nell’ottica degli esisti di patologia “per poter razionalizzare le risorse senza dover operare tagli lineari. Inoltre – ha proseguito l’esperto – si riduce l’eterogeneità in quanto attraverso le evidenza andiamo a creare dei percorsi condivisi dai vari specialisti per garantire l’efficientamento delle cure”.
Per ridurre l’impatto sociale dell’osteoporosi sono stati pensati diversi modelli multidisciplinari di presa in carico. “I Fracture Liaison Service (FLS) rappresentano il modello coordinato di prevenzione secondaria delle fratture più comune ed economicamente e clinicamente efficace”. I FLS, ha precisato ancora Procacci, sono percorsi diagnostico-terapeutici, implementati all’interno delle strutture sanitarie, con l’obiettivo di ridurre il treatment gap nei pazienti con fratture osteoporotiche e migliorare la comunicazione tra le diverse figure sanitarie coinvolte. “È stato sviluppato un set di KPI con l’obiettivo di dimostrare le aree di miglioramento del servizio e misurare l’impatto degli interventi di servizio all’interno di una metodologia plan-do-study-act”. Tra gli indicatori si fa riferimento all’utilizzo di farmaci per l’osteoporosi con particolare riguardo all’appropriatezza terapeutica e alla tempestività di intervento a seguito di un evento sentinella. Questo anche per intervenire su quelli che sono i costi dovuti alle ospedalizzazioni per fratture.
Nell’ambito dell’osteoporosi, ha spiegato Procacci, “l’obiettivo della terapia farmacologica è quello di ridurre il rischio di fratture ed una corretta individuazione dei soggetti da trattare costituisce il primo fondamento per un approccio razionale alla terapia. Come abbiamo visto i farmaci approvati per l’osteoporosi sono gli antiriassorbimento e gli anabolizzanti, di cui fanno parte teriparatide e romosozumab, e le evidenze ci dicono che nel paziente osteoporotico con pregresse fratture vertebrali o femorali ed in quelli con fratture non vertebrali o femorali con dimostrata riduzione della densità ossea, il trattamento in prevenzione secondaria è essere ampiamente giustificato. Alla luce di quanto detto nella Asl BAT (Barletta-Andria-Trani), al 2020 possiamo quantificare la spesa per frattura in circa 3 milioni e mezzo, accompagnata da una scarsa aderenza al trattamento (43%). Facendo però una stima, ipotizzando un aumento dell’aderenza al trattamento fino all’80%, a fronte di un aumento della spesa per farmaci avremo una riduzione dell’importo totale per accesso al pronto soccorso a seguito di frattura pari a quasi 700mila euro e una diminuzione degli accessi in PS quasi del 30%”.
In conclusione quindi, “l’evoluzione del Sistema sanitario impone oggi una evoluzione della misurazione dei consumi, correlando gli stessi agli esiti clinici dei trattamenti. Evidenze scientifiche hanno dimostrato come disporre di indicatori di aderenza delle modalità prescrittive offra l’opportunità di migliorare all’interno di ogni singola realtà locale processi di governo clinico e di monitoraggio interno, sia per il paziente sia per Servizio sanitario nazionale. Nel prossimo futuro avremo bisogno di indicatori sempre più specifici per ciascuna patologia per estrarre dei dati e generale beneficio e risparmio. Tutto ciò deve essere frutto di un lavoro condiviso da parte di ASL, Regioni, specialisti e medici di famiglia, affinché si realizzi un progetto di autovalutazione e per l’efficientamento del Ssn”.
“Non ci può essere una buona organizzazione se questa non poggia su solide competenze”, ha aggiunto Rossella Moscogiuri. “L’attività del farmacista è di tipo integrato tra attività regolatoria, di vigilanza e di informazione. È dunque indispensabile il raccordo tra farmacia territoriale e farmacia ospedaliera, integrazione che spesso non si è realizzata. C’è necessità di una complessiva riorganizzazione e penetrazione sul territorio, di fare team building e lavorare per l’appropriatezza e per migliorare la qualità dell’assistenza. Naturalmente serve anche un rafforzamento della massa critica per far fare un salto di qualità a quello che è un contesto che non ha più bisogno di dettami formativi”. Nella realtà di Taranto “per quanto riguarda i farmaci per l’osteoporosi, partiamo sempre dal regolatorio perché non essendoci ancora una forte volontà di creare una integrazione forte, ci muoviamo ancora su decreti amministrativi che sono su base verticale”, ha spiegato Moscogiuri. “Per quanto riguarda l’aderenza, i farmaci iniettabili per l’osteoporosi favoriscono il paziente e favoriscono l’aderenza al trattamento e noi dovremmo investire 0,7 milioni di euro in più in farmaci per poter avere un controllo delle fratture”.
Sul tema delle fratture è ritornata anche Domenica Daniela Ancona. Questo, ha detto, è un “importante problema per la salute pubblica perché associato a comorbidità e mortalità”. È auspicabile “prevedere una più efficace gestione delle patologie croniche cercando di evitare il più possibile gli accessi nosocomiali e puntare di più sull’assistenza territoriale per cui i fondi del PNRR dovrebbero essere investiti”, ha precisato. Per migliorare la gestione integrata delle patologie croniche occorre quindi “investire su aderenza terapeutica e superare la logica a silos che ancora oggi attanaglia il nostro Servizio sanitario nazionale”.
Per Marco Benvenuto il tema dell’innovazione non può essere scisso da quello della ricerca: “ricerca e innovazione sono un binomio che ricade sull’assistenza e sui servizi”, ha detto l’esperto. “Sappiamo che il paziente con osteoporosi è un paziente complesso quindi siamo nel nuovo paradigma della complessità e della cronicità. Se poi aggiungiamo che ad ogni cronicità è associata una policronicità, i dati di spesa si triplicano. C’è necessità di stabilire percorsi di pianificazione che non possono essere più solo modelli. È arrivato il momento di studiare un modello di lavoro nuovo che punti al confronto”, ha concluso Benvenuto perfettamente in linea con quanto detto anche da Moscogiuri e colleghi.
La pandemia ha “colpito” anche la partecipazione agli screening delle patologie oncologiche. Un forte calo di partecipazione lo hanno registrato gli screening mammografici. Per far ripartire questa buon abitudine di salute, Roche Italia e Fujifilm Italia danno vita alla campagna di prevenzione “Screening Routine”, che si concretizza nella donazione di mammografi di ultima generazione a 10 aziende sanitarie sul territorio nazionale.
24 MAG – Secondo i dati dell’Osservatorio Nazionale Screening, nei primi 5 mesi del 2020, quelli più fortemente impattati dalla pandemia, si è assistito ad un calo dello screening mammografico pari al 53,8% rispetto al 2019, con un ritardo accumulato di 2,7 mesi, che si stima potrebbe tradursi in un aumento della mortalità a 5 anni per tumore al seno tra l’8 e il 9%.
Una situazione senza precedenti, che richiede una sinergia e un impegno altrettanto eccezionali da parte di tutti gli attori del Sistema Salute per recuperare il tempo perduto e invertire questo trend.
Da queste premessa nasce la collaborazione tra Roche Italia e Fujifilm Italia che, per la prima volta, uniscono le forze e scendono in campo insieme e al fianco del Sistema Salute per la lotta contro il tumore al seno, dando vita alla campagna di prevenzione “Screening Routine”.
L’impegno di Roche e Fujifilm si concretizza nella donazione di mammografi di ultima generazione a 10 aziende sanitarie sul territorio nazionale, identificate e selezionate da Fucina Sanità in qualità di partner esterno indipendente: Asl 1 di Imperia; Azienda Ospedaliera (AO) S. Croce e Carle di Cuneo; Azienda Socio-Sanitaria Territoriale (ASST) di Lodi; Azienda Ulss 9 Scaligera di Verona; Azienda USL Umbria 1 di Perugia; ASL Roma 3; ASL 2 Lanciano Vasto Chieti a Chieti; ASL Napoli 2 Nord; Azienda Sanitaria Provinciale di Cosenza; Azienda Sanitaria Provinciale di Palermo.
La selezione degli enti pubblici prescelti è avvenuta sulla base di 6 criteri, in ordine di priorità: coerenza con le programmazioni nazionali e regionali; equilibrata distribuzione geografica a livello nazionale e nella scelta delle Asl metropolitane e provinciali; percentuale di esami in meno nel 2020 rispetto agli anni precedenti; necessità di sostituzione delle apparecchiature obsolete, con particolare attenzione a quelle analogiche rispetto alle digitali presenti in ogni Regione; strutturazione organizzativa delle Direzioni aziendali e delle Strutture da coinvolgere sulla base dei risultati attesi in termini di abbattimento delle liste di attesa.
L’iniziativa farà tappa nei territori identificati, con attività di sensibilizzazione anche a livello locale, che vedranno il coinvolgimento delle strutture sanitarie partner e della cittadinanza.
La campagna “Screening Routine” vuole parlare alle donne, sensibilizzandole su un aspetto importante per la loro salute, anche attraverso canali inusuali come quelli dello shopping online. Infatti, nonostante quest’anno sia stato particolarmente difficile, tra preoccupazioni, precarietà e nuovi equilibri, le donne hanno comunque continuato ad occuparsi di sé.
Lo dimostrano le ricerche di mercato, che registrano un picco di vendite di articoli legati a salute e benessere del +72%. E i canali privilegiati sono stati quelli dello shopping online, ai quali si sono affidate anche molte donne che non li avevano mai frequentati prima.
La campagna di prevenzione “Screening Routine” partirà proprio dai più conosciuti siti di e-commerce, dove sarà presente con annunci che si ispireranno al linguaggio tipico del mondo beauty e wellness, per sensibilizzare e coinvolgere le donne italiane invitandole a ridare priorità ad un rituale prezioso per la propria salute e per il proprio benessere: quello della screening routine.
“La pandemia ci ha insegnato il valore di unire le forze e attivare sinergie tra pubblico e privato, per rispondere alle sfide dettate dall’emergenza. Da qui nasce la straordinaria collaborazione con Fujifilm – commenta Maurizio de Cicco, Presidente e AD Roche Italia – In linea con la direzione tracciata anche dal PNRR, vogliamo cogliere l’opportunità di far evolvere il nostro approccio da azienda farmaceutica tradizionalmente focalizzata sulla ricerca e lo sviluppo di farmaci a partner del Sistema, in grado di offrire soluzioni e servizi integrati, puntando sul recupero della prevenzione, una migliore articolazione dell’assistenza sanitaria sul territorio, sulla digitalizzazione e sulle dotazioni tecnologiche, sulla valorizzazione del capitale umano, attraverso ricerca e formazione. Con la campagna “Screening Routine” vogliamo sostenere ed essere parte attiva di questo cambiamento verso l’innovazione e la sostenibilità del SSN e dare maggiori garanzie di accesso ai migliori percorsi di diagnosi e cura.”
“Il ruolo dell’industria, in un momento di crisi sanitaria senza precedenti, è quello di supportare attivamente il Sistema Salute in un percorso di evoluzione che ha come punto di arrivo il miglioramento del servizio al cittadino e al paziente e, di conseguenza, l’erogazione di percorsi di prevenzione e di cura ottimali – osserva Davide Campari, General Manager Fujifilm Italia div. Medical Systems – Siamo pertanto onorati e felici di collaborare con Roche Italia al lancio della campagna “Screening Routine”, che pone l’attenzione su una situazione drammatica come il mancato accesso alle prestazioni di screening mammario durante la pandemia, puntando ad una collaborazione a tutto campo tra gli attori del Sistema, e ad una piattaforma di comunicazione innovativa che utilizza un linguaggio inconsueto e modalità nuove per il settore.”
La campagna “Screening Routine”, promossa da Roche Italia e Fujifilm Italia, è realizzata in collaborazione con Fondazione Roche e Fucina Sanità e con il patrocinio di AIOM (Associazione Italiana di Oncologia Medica), SIRM (Società Italiana di Radiologia Medica e Interventistica), GISMa (Gruppo Italiano Screening Mammografico), F.A.V.O (Federazione Italiana delle Associazioni di Volontariato in Oncologia) e Cittadinazattiva. Ulteriori informazioni sulla campagna si possono trovare sul sito dedicato www.screeningroutine.it e sui canali digitali e social di Roche Italia e Fujifilm Italia.
La rivisitazione organizzativa della sanità italiana, possibile anche attraverso gli attesi fondi europei, dovrebbe evitare di allocare le risorse sulla base di richieste frantumate e settoriali, bensì partire da una analisi complessiva dei bisogni del Ssn, al fine di ripensare una configurazione organizzativa coerente col fare, col rispondere ai bisogni dei cittadini, senza disperdersi nei labirinti burocratici dei bisogni e delle difensività interne al sistema
In termini generali la disponibilità del recovery fund rappresenta una ghiotta risorsa per razionalizzare il sistema sanitario. Potrebbe proporsi come occasione unica per snellire strutture organizzative appesantite da ruoli ridondanti e povere di ruoli necessari, frutto di evoluzioni di carriere non formalmente tutelate e perciò non funzionali al lavoro ma abbandonate alla micronegoziazione informale di interessi soggettivi.
La necessità di utilizzo oculato del recovery fund potrebbe rappresentare una spinta epocale tesa a sostituire con protocolli di lavoro trasparenti la selva di adempimenti che rallentano ed ingessano l’attività organizzativa. Procedure che inducono recite burocratiche in obbedienza a copioni formali, spesso indipendenti dal loro senso. e disabituano gli individui a ragionare efficacemente per obiettivi e per soluzione dei problemi.
Questo momento storico di possibile rifondazione efficace del sistema sanitario pubblico suggerisce di non perdere l’attuale occasione di razionalizzazione.
La rivisitazione organizzativa dovrebbe evitare di allocare le risorse sulla base di richieste frantumate e settoriali, bensì partire da una analisi complessiva dei bisogni del Servizio Sanitario Nazionale, al fine di ripensare una configurazione organizzativa coerente col fare, col rispondere ai bisogni dei cittadini, senza disperdersi nei labirinti burocratici dei bisogni e delle difensività interne al sistema. Senza una revisione organizzativa d’efficienza (costi) e di efficacia (appropriatezza), delle prestazioni sanitarie, molte delle risorse finanziarie del recovery fund finirebbero divorate dalle diseconomie del sistema, dagli stalli e dalle entropie attivate da soggetti pronti a riempire d’interessi personali, a volte illeciti, gli spazi non organizzati in termini di trasparenza e controllo organizzativo. Le notevoli risorse finanziarie in gioco sono un’occasione unica di investimento positivo ma sollecitano anche appetiti per nulla etici.
Con uno sguardo rivolto al sistema sanitario nazionale nel suo insieme si può affermare che la pandemia ha messo in risalto alcune ambiguità di attribuzioni gestionali esistenti tra stato e regioni, ma soprattutto alcuni ruoli a volte non agiti da parte dello Stato, a cui compete il governo unitario della logica sanitaria, per dettato della Costituzione.
Una normativa lasca ha previsto in alcuni casi una sovrapposizione non chiarita di responsabilità decisionali da condividere tra centro e periferia. Come era prevedibile, l’area normativa comune di ideale condivisione negoziale tra regioni e governo centrale è stata interpretata da molte regioni, alle quali compete la gestione operativa della Sanità, come area di conquista territoriale.
Sta di fatto che, questa pilatesca non distinzione puntuale di aree ritenute di decisioni strategiche o sovraterritoriali (nazionali), rispetto alle aree di decisioni gestionali adattate ai territori (regionali), nel tempo, è stata invasa, spesso in assenza di un’autorevole presenza statale, da una regionalizzazione non sempre competente e talvolta anarchica. In momenti storici di ordinaria amministrazione il livello apicale nazionale ha mantenuto una strategia di lontananza, di “ventre molle”, accettando configurazioni e valori di riferimento della sanità pubblica specifici di ogni regione, in assenza o in palese dissenso rispetto alle poche ed episodiche indicazioni del livello nazionale (vedasi ad esempio alcune riforme regionali incoerenti con le leggi nazionali e non impugnate dallo stato).
A fronte di imprevisti globali come il Covid, che richiedono strumenti centrali, nazionali o sovranazionali di gestione generale di un fenomeno pandemico, si scopre che poche regioni possiedono, seppur da perfezionare, un’anagrafe vaccinale altre non la hanno per nulla. A livello nazionale non ci si è posti nel tempo e con forza il problema. Soprattutto là dove esiste una banca dati, sembra mancare la capacità operativa di usarla organizzativamente.
Questo è solo un piccolo esempio dello stretto rapporto esistente tra informatizzazione ed organizzazione. Si tenga presente che un’anagrafe vaccinale che classifichi la popolazione per età, per esistenza di patologie gravi, per distanza chilometrica e temporale dei cittadini dai siti vaccinali semplificherebbe enormemente l’organizzazione delle campagne vaccinali di massa.
Il risultato è che in assenza di un riferimento centrale e ideale comune, si sono consolidate nelle regioni configurazioni di organizzazione sanitaria diverse, spesso non solo per legittime esigenze di adattamento ai bisogni del territorio, ma anche per scelte autonome e politiche regionali, spostando, di fatto, il baricentro istituente dallo Stato alle Regioni. Poiché alle diverse logiche di configurazione organizzativa della sanità corrispondono prestazioni sanitarie diverse, nel nostro paese, più che di sanità nazionale si può parlare di una sommatoria non sempre coordinata di sanità regionali.
Nelle organizzazioni complesse e diffuse territorialmente tutti i dati di monitoraggio e controllo sono gestiti direttamente dalla sede centrale, per il fatto che le sedi periferiche sono implicate nel conflitto d’interesse che nasce dall’essere spesso coinvolte sia nel ruolo del soggetto valutato sia in quello del valutatore. Conflitto che a volte spinge i valutati, per convenienza, ad esercitare forzature sui dati di valutazione, al fine di apparire, per convenienza, diversi dalla realtà fattuale, da quello che realmente sono (come è avvenuto a volte in merito con la produzione dei dati epidemiologici regionali del Covid).
Un governo centrale coraggioso potrebbe sfruttare la spinta alla digitalizzazione richiesta dal recovery fund per accentrare maggiormente a livello nazionale, monitoraggio, coordinamento e controllo delle prestazioni erogate dal sistema. Il fenomeno di diffusione della digitalizzazione non rappresenta solo un processo di aggiornamento tecnologico. La digitalizzazione è un potente strumento di sviluppo organizzativo e di governo generale, se è sensatamente progettata ai fini di ottenere maggiore trasparenza, visibilità e consapevolezza di fenomeni complessi.
Si possono gestire i fenomeni dei quali si ha consapevolezza, in assenza di consapevolezza, sono i fenomeni che implicitamente ci gestiscono.
Ecco alcuni esempi di programmi digitalizzabili: · anagrafe nazionale assistiti; · rafforzamento del FSE in termini di digitalizzazione della documentazione clinica e concreto utilizzo della stessa nei processi di cura clinico-sanitari; · banca dati nazionale della digitalizzazione delle cartelle cliniche aziendali (CCEI) a supporto dei percorsi clinici; · semplificazione all’accesso agli strumenti digitali; · interoperabilità dei dati sanitari strutturati da diverse fonti, a livello centrale e locale, a supporto dei processi di prevenzione, sorveglianza e cura (a titolo esemplificativo per la presa in carico dei pazienti cronici e fragili); · integrazione nazionale di strumenti per la costruzione di scenari di programmazione e prevenzione sanitaria (a titolo esemplificativo misurazione dei tempi d’attesa effettivi delle prestazioni o monitoraggio dei dati qualitativi sul livello di appropriatezza e quantitativi sui volumi di prestazioni sanitarie standard); · servizi generalizzati di telemedicina accessibili ai pazienti e alle aziende sanitarie pubbliche e private; · dati generali delle attività dei MMG e dei dirigenti medici convenzionati per attività; · format strutturato di analisi sistemica nazionale, utile alla formulazione tramite un modello comune degli “atti aziendali”.
La digitalizzazione dei modelli organizzativi favorirebbe il possesso centrale di una banca dati che renderebbe agevole le comparabilità di dimensionamento organizzativo dei diversi modi di erogare prestazioni simili sul territorio. Una tale banca dati permetterebbe l’apertura di una discussione manageriale ed una ricerca empirica che aiuti a descrivere e condividere i modelli organizzativi più efficaci. Monitorando le formule organizzative nel loro concreto divenire non si cancella, come avviene oggi, la storia alle spalle senza memoria, ma si fa della memoria una pedagogia continua di riprogettazione organizzativa;
Appare evidente la necessità di istituire strutture funzionali interne al sistema sanitario pubblico, dedicate alla costruzione e gestione dei sistemi informativi. Di conseguenza va curata la selezione di figure specialistiche e gestionali dedicate ai fenomeni di digitalizzazione. Contemporaneamente vanno progettati percorsi formativi universitari e post-universitari strutturati, per il top management ma anche per il middle management da proporre non solo alle aziende sanitarie ma soprattutto alle direzioni regionali e nazionali .
Una digitalizzazione sensata è alleata della trasparenza, figlia dei dati reali che, a sua volta, è alleata delle negoziazioni che fanno appello alla “testa” più che alla “pancia”. La digitalizzazione funzionale evoca l’intelligenza della ragione e mette in ombra le passioni legate agli interessi emotivi di parte o di natura pregiudizialmente ideologica. La digitalizzazione di fenomeni organizzativi generali costituirebbe la rappresentazione metaforica delle redini informative e di monitoraggio che permetterebbero al centro nazionale di vedere, guidare, controllare e sviluppare piani strategici di gestione legittima del sovrasistema della sanità nazionale.
Chiarite le responsabilità gestionali strategiche nazionali, apparirebbero più chiare le deleghe gestionali operative e di adattamento ai bisogni dei territori, da affidare al decentramento regionale. In tal modo sarebbe più facile proporre aggiustamenti normativi sensati.
È chiaro che per tutelarsi dalla pratica levantina di manipolazione dei dati digitalizzati appare utile affiancare i processi defisicizzati col deterrente di significativi controlli fisici a campione, magari istruiti da apparati terzi.
La digitalizzazione oltre alla tecnologia richiede stanziamento di organico per il controllo di veridicità dei dati, il che sollecita la nascita di apposite funzioni aziendali e maggiori assunzioni in organi di controllo (controllo di gestione effettivo, controllo finanziario, agenzie di certificazione ed affini).
I presenti spunti di cambiamento potrebbero, con pochi adattamenti, essere estensibili a tutte le amministrazioni pubbliche e quindi rappresentare un forte strumento di sburocratizzazione del nostro sistema.
Fulvio Moirano Amministratore Fucina Sanità Esperto di organizzazione sanitaria
Roberto Vaccani Consulente e docente di organizzazione aziendale e di comportamento organizzativo
Un gruppo di lavoro incaricato dal Dg Schael sta verificando se l’11° livello della Palazzina “Cuore” dell’Ospedale di Chieti, mai utilizzato e totalmente vuoto, possa essere adatto a ospitare lo snodo nevralgico del laboratorio unico aziendale, a cui faranno riferimento in rete le “sedi spoke” presenti negli altri ospedali della provincia.
Un gruppo di lavoro per l’automazione del laboratorio (di cui fanno parte Angelo Muraglia, Fulvio Moirano, Guglielmo Bracco, Flavio Dadone, Antonio Marchetti, Maria Golato, Patrizia Di Gregorio, Pasquale Colamartino, Liborio Stuppia e Filippo Manci), incaricato dal direttore generale della Asl Vasto-Lanciano-Chieti, Thomas Schael, sta verificando da oggi se l’11° livello della Palazzina “Cuore” dell’Ospedale di Chieti, mai utilizzato e totalmente vuoto, è adatto a ospitare lo snodo nevralgico del laboratorio unico aziendale, la cosiddetta “sede hub” cui faranno riferimento in rete le “sedi spoke” presenti negli altri ospedali della provincia. Lo comunica la Asl in una nota.
“Si tratta – spiega la Asl – di un’ulteriore accelerazione al progetto, condiviso con l’Università “Gabriele d’Annunzio” di Chieti-Pescara, per la riorganizzazione della rete dei servizi di Laboratorio di analisi cliniche, Anatomia patologica, Centri trasfusionali, Genetica che manterrà in ogni ospedale la gestione delle urgenze e delle necessità interne, concentrando in un’unica sede la lavorazione del sangue e del materiale biologico in generale. Nulla cambierà, in termini di efficienza, per tutti i cittadini della provincia: resteranno e, se necessario, saranno potenziati i punti di prelievo attuali; si avranno più qualità e uniformità nei risultati grazie a tecnologie innovative, processi unificati e ottimizzati”.
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